Non sono un fan sfegatato di horror e
zombie, nel senso che non me li vado a cercare spontaneamente. E
peggio ancora, se esce un film tratto da un libro, raramente corro a
leggere la versione letteraria originale (fatta eccezione per autori
come Matheson e altri).
Quando ho visto il trailer di World War
Z ho pensato: un'epica cafonata hollywoodiana, non posso perdermela!
Attendo il dvd e me lo vedo a casa con amici, birra e patatine. Non
mi sono informato ulteriormente. Poi un amico mi ha detto che il
romanzo da cui è stato tratto è “completamente diverso” dal
film, accennando a uno stile narrativo basato su interviste.
Generalmente diffido da affermazioni simili, se non sono arricchite
da spiegazioni. Molte persone ritengono che la storia cartacea abbia
un valore intrinseco che le conferisce più valore e dignità
rispetto a un film (le stesse persone che osannano “Il profumo
della carta” e si spacciano per intellettuali ma poi leggono Fabio
Volo, Baricco o Licia Troisi).
La verità è che ci sono un sacco di
romanzi scadenti con la corrispettiva versione cinematografica di
gran lunga migliore.
Mi sono fidato del consiglio del mio
amico e in effetti non mi sono pentito.
World War Z è un romanzo
formato da un certo numero di interviste. Il protagonista
sostanzialmente è l'intervistatore, di cui però non si sa nulla, è
in secondo piano e interviene solo per fare domande.
I personaggi intervistati parlano del
proprio lavoro o della propria vita dal momento del Grande Panico
(alias la consapevolezza della diffusione della cosiddetta Rabbia
africana, cioè il virus “zombiesco”) fino al tempo attuale.
Civili, militari, ognuno dà il suo contributo.
L'inizio del romanzo tratta dei casi di
infezioni in Cina e in tutto l'oriente, dopodiché gli intervistati
appartengono a zone diverse del pianeta. Ogni intervista contribuisce
a delineare un quadro generale e strutturato del mondo invaso dal
morbo, con tutti i fenomeni sociali che ne derivano (per esempio, i
“coyote” orientali che lucrano sull'evasione della gente dal
paese infetto, come accade per Messico-California ecc., o
l'invenzione tempestiva di presunti vaccini per il virus), ma anche
le dinamiche politiche (ostilità tra paesi, riorganizzazione
militare ecc., l'istituzione di nuovi nuclei),
psicologiche/antropologiche (il nuovo stile di vita post-apocaliptico
in cui i lavori di manovalanza sono gli unici utili, al contrario di
quelli da ufficio, con una conseguente inversione di ruolo, o il
clima emotivo di ansia e PTSD a man bassa), e le caratteristiche
della malattia (come avviene il contagio, come evitarlo, come
riconoscere gli zombie veri dai quisling, la gente non infetta ma che
ha perso la brocca e pensa di esserlo).
Sono rimasto molto colpito dal romanzo.
La forma della narrazione è stimolante. Sono vere e proprie
cronache, è una forma che rompe con la solita linearità di
narrazione di una storia. Diversi personaggi espongono la storia nel
loro proprio stile comunicativo, e questo dà spessore ai personaggi.
Come al solito ci sono dei “ma”,
perché sennò non sono contento.
Le interviste sono tante, non finiscono
mai, ma va bene; il problema è che la solfa è sempre quella. Lo
stile comunicativo originale appartiene a pochi personaggi in realtà:
la maggior parte sembra avere sempre un tono saccente che ti fa
dimenticare chi è che sta parlando al momento, se il militare
esperto o un guerrigliero, un veterano.
I temi affrontati sono sempre quelli,
sotto diversi punti di vista. E va bene. Ma i particolari su cui si
soffermano sembrano essere talvolta sempre i soliti: le armi, i nuovi
nuclei organizzativi (ognuno con un acronimo), i protocolli.
A un certo punto, verso la fine, ero
stanco di leggere (e vedere con gli occhi della mente) l'ennesimo
uomo/donna che la sa lunga, che parla di organizzazioni e politica, e
via discorrendo.
Ho trovato molto più interessanti e
toccanti le situazioni psicologiche (deformazione professionale a
parte) che riguardavano il cambiamento nei rapporti interpersonali in
un mondo apocaliptico, il cambiamento dei valori, l'acquisizione di
un nuovo modo di vedere la vita, e via discorrendo.
Ho apprezzato molto anche le idee dei
quisling, degli zombie che al nord o in inverno congelano e non sono
un pericolo, quelli che affollano i mari, e altre particolarità.
Posso dire con coscienza che di per sé
il romanzo è ben fatto, vale la pena leggerlo e sicuramente offre
spunti e può appassionare gli amanti del genere. Un mio consiglio
all'editor sarebbe stato di sfoltire le parti a tema politico
(sfoltire nel senso che, a concetto chiaro, fermarsi lì e non stare
a ricamarci sopra) e istituzionale (sostanzialmente aria fritta,
tutti questi acronimi di gruppi, protocolli, ecc.: basta far capire
il messaggio e poi lasciarlo lì: le storie, l'azione, il movimento
sono interessanti, la teoria sterile e fine a sé annoia,
considerando poi che l'intero romanzo è un insieme di digressioni,
spesso spiegazioni a tavolino, talvolta storielle, rincarare la dose
con astrazioni e teorie non fa tanto bene.)
Per concludere: il film con quel
mandibolone di Brad Pitt non l'ho ancora visto. Il romanzo mi ha
soddisfatto, e dubito che il film abbia granché a che fare col
romanzo (perché altrimenti sarebbe un film noiosissimo), per cui non
saprei proprio se è meglio leggere prima uno e poi vedere l'altro, o
viceversa, o nessuno dei due.
Posso solo dire che il tempo speso per
leggere è stato ben ripagato. Direi che è un buon esempio di uno
dei modi in cui si può raccontare (bene) una storia. Se dovessi dare
un voto direi 8.