mercoledì 31 agosto 2011

Impressioni | La guerra contro gli Chtorr, di David Gerrold

Vista la fama e le voci e il saggio sulla scrittura di Gerrold, non potevo non leggere La guerra contro gli Chtorr.
Mi aspettavo grandi cose, proprio perché sapevo che si parlava di uno scrittore cazzutissimo, un mostratore, un profeta del futuro ecc.
Ma a essere sinceri non mi ha soddisfatto così tanto.
Il romanzo (d'ora in poi: la Guerra) è il primo di un ciclo di 7 libri, di cui pubblicati 4 fino al '91, il 5° doveva uscire nel luglio di quest'anno (e credo sia uscito).

Breve sinossi taotoriana dell'opera:
C'è un biologo mezzo laureato che viene chiamato dalle forze armate per aiutare il paese a studiare e arrostire gli alieni che hanno decimato quasi tutta la popolazione mondiale con epidemie batteriologiche. Oltre ai virus e a qualche insetto, gli alieni pericolosi sono 'sti Chtorr, dei vermoni giganti assurdi che mangiano le persone e nessuno li conosce perché giustamente chi li vede poi muore. E quindi c'è il mistero. Che sono? Che vogliono? Perché si magnano le persone? Come accopparli?

L'ambientazione è bella. Non bella perché apocalittica, stile fucile, mascherina e deserto radioattivo, ma perché è tutta una derivazione realistica dall'ipotesi: What if una serie di batteri alieni infettasse la popolazione mondiale? What if poi arrivassero dei vermoni giganti?
Il romanzo è narrato in prima persona, per cui eventuali infodump su armi e ambientazione sono giustificati - ovviamente perché narratore e protagonista coincidono.
Il punto debole del romanzo è proprio questo.
Con la scusa della prima persona, Gerrold si protegge col protagonista come scudo, e da dietro racconta la storia di ciò che è successo al mondo in maniera forzata, fuori dagli eventi naturali. La cosa si può fare, perché una persona (narrante) può pensare ciò che vuole ecc., ma ne risente la storia - che rallenta - e la credibilità.
In realtà il romanzo è godibile. Ciò che non mi è piaciuto è l'andamento della storia (e piccoli dettagli stilistici).
Dice Gamberetta riguardo alla Guerra, in questo articolo:

Nota importante: la storia non è finita. Nel progetto originario erano previsti altri tre romanzi, che Gerrold in sedici anni non ha ancora scritto – né è scontato che lo faccia in futuro. [l'articolo risale al 2009; secondo Wikipedia, i libri sono stati terminati, n.d.Taotor.]

La Terra viene invasa dagli alieni, gli Chtorr. Anzi, viene aggredita da un intero ecosistema alieno. Gli Chtorr sono una moltitudine di specie diverse: animali, piante, microbi. Pian piano le creature extraterrestri rimpiazzano gli equivalenti autoctoni, esseri umani compresi.
Il lavoro di Gerrold con gli Chtorr è molto più accurato e scientificamente approfondito rispetto a quello di Westerfeld con i Darwinisti. Gli Chtorr sono parecchie spanne più verosimili delle bestie ingegnerizzate in Leviathan. E sono molto più bizzarri e letali.
Nei vari romanzi del ciclo le scene d’azione sono ottime – sebbene anche qui manchino delle vere e proprie battaglie – e la sensazione di apocalisse imminente è ben resa. I romanzi funzionano meno quando Gerrold imita le lezioni di filosofia di Heinlein senza averne il carisma e la bravura. Rimane poi il grosso problema che dopo quattro libri è tutto in sospeso e non si sa se vinceranno i Terrestri o gli Chtorr. E forse non si saprà mai.

Ecco.
La questione filosofica. Ci sono scene lunghissime di flashback - carine, ma in certi tratti ridicole, a mio avviso - in cui Jim, il protagonista, ricorda le lezioni (infodumposissime) del prof. Whitlaw.
Questo rallenta e non poco.
Poi ci sono i flashback di quando è andato a nascondersi con la famiglia dalle epidemie. E questo è buono.
Ma per il resto, il romanzo è tutto conferenze e ciarle tra miliziani e professoroni. E l'impressione che si ha, durante i lunghi dialoghi di scienziati che illustrano la situazione mondiale, è: ok, ma quando si va avanti co' sta storia?
Nel disegnare uno schema per l'andamento del romanzo, si avrebbero due picchi. All'inizio, il Chtorr arrosto, e alla fine (non vi dico lo spoiler, ma non è granché). In mezzo, una vallata di piattume.
Le idee di Gerrold però sono fighe, soprattutto la biologia degli Chtorr e anche il modo in cui gestisce lo sviluppo post-epidemico del mondo è notevole. Mi dispiace, però, che la storia - almeno, in questo primo libro - si soffermi sull'aspetto dell'ambientazione, e poco sulla sostanza. Perché in sostanza si presume che ci siano conflitti e obiettivi da raggiungere, è il motore della fiction, letteratura, teatro, cinema. Non ho trovato un gran "movimento", però, nel romanzo - che in potenza lascia spazio a possibili storie intriganti.
Senza lode né infamia, insomma.
L'aspetto stilistico che non mi è piaciuto, della Guerra, è che in qualche punto Gerrold trascura i particolari - una cucina o una sala mensa sono solo parole, non vengono dipinte nemmeno un po', a volte è lo stesso per alcuni personaggi, sagome indefinite. Nulla di tremendo, considerando che per il resto lo stile è asciutto e coerente.
L'aspetto psicologico del protagonista è buono, ma Gerrold ci si sofferma troppo e cade nel luogo comune del trauma Padre-che-non-presta-attenzione-ai-figli, e così facendo arriva a far dire cose scontate e imbarazzanti al povero (traumatizzato) Jim in lacrime.
Nota di demerito tutta taotoriana: a un tratto a fare psicoterapia a Jim è... uno psichiatra. Lì ho desiderato la morte di Gerrold e di tutta la setta mafiosa degli psichiatri.

La valutazione di Gamberetta è:
Se devo essere onesta, La Guerra contro gli Chtorr, della quale ho letto solo il primo romanzo, non mi è piaciuta. Anche se più per i temi e la filosofia di fondo che non per via dello stile di scrittura. In compenso questo Worlds of Wonder [saggio di Gerrold sulla scrittura, n.d.Taotor] mi ha molto divertita.
Lei non ha apprezzato i temi, io tutto sommato sì, ma come il più bravo oratore può farla in barba a tutti grazie a una tecnica impeccabile, ritengo Gerrold non sia in grado, e che il suo stile non sia perfetto o, ad ogni modo, riesca a raggiungere lo scopo - avvincere il lettore. La vallata tra i due picchi - iniziale e finale - mi ha annoiato, e quella vallata è durata per tipo il 70% del romanzo. Non l'ho trovata una cosa gradevole, mi è sinceramente dispiaciuto.

Ricapitolando, il romanzo è godibile, soprattutto per lo sfondo politico, economico, sociale ecc., e anche stilisticamente merita. Ma tra un Gerrold stilisticamente bravo che però gestisce a modo suo gli eventi, e un Asimov zoppicante pieno di fantasia, preferisco il secondo (che zoppica solo nei romanzi, non nei racconti brevi), che nonostante tutto illustra bene le sue idee senza ricorrere necessariamente a numerosi monologhi infodumposi, e risulta creativo e più avvincente.

Nota.
Ringrazio Gamberetta. Ho "rubato" l'immagine di copertina della Guerra dal suo post.
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Link utili:

sabato 27 agosto 2011

Impressioni | The cold embrace of fear, dei Rhapsody of fire


Dei recentissimi album dei Rhapsody of Fire, questo è quello che mi è piaciuto di più, principalmente per il punto di vista dell'atmosfera Fantasy - oltre che per l'aspetto musicale.
The cold embrace of fear è un concept, narra una storia e l'ambientazione è originale, creata dal Turillone anche per gli altri album.
La prima e la seconda traccia, o meglio, il primo e il secondo atto, The pass of Nair-Kaan e Dark mystic vision, sono introduzioni evocative, orchestrate e affiancate dalle voci che recitano la, per così dire, sceneggiatura - l'apice di quello che i Rhapsody (of Fire) hanno definito Film score metal, discostandosi dalla loro vecchia definizione di Hollywood metal, ma dimostrando bene cosa intendono. Tra le voci dei personaggi compare - come già negli album precedenti - quella di Christopher Lee, alias il Saruman del Signore degli anelli.
Il terzo atto, The ancient fires of Har-Kuun, è una "piccola" suite di 14 minuti, nonché una grossa fetta dell'album, che introduce il tema principale - orchestrato e con un po' di batteria e chitarra distorta - e prosegue col resto del brano: un bel riff in overdrive su un ritmo accattivante, strofa un po' in italiano e un po' in inglese con arpeggio acustico in sottofondo, pre-chorus aggressivo con pennate veloci in palm-mute, un bello stacco di chitarra solista accompagnato dalla ritmica che esegue una scala distorta dal sapore operistico, e così via con tastiere che fungono da archi, da clavicembalo. C'è spazio anche per un "occhio di bue" sul basso che si esibisce in un riff di stacco per il ritornello (accompagnato poi da chitarra ecc.), cui segue il tema principale (rigorosamente con cori solenni: questa è la mitica tamarraggine fantasy dei Rhapsody, alziamo le spade magiche al cielo, pisciamo sui cadaveri dei demoni, in alto i boccali, lunga vita al re!).
Ottima la conclusione, melodie da rondò veneziano seguite da assoli di tastiera e chitarra in botta e risposta.
Il quarto atto, The Betrayal, è un altro intermezzo recitato, con un sottofondo musicale ridotto al minimo.
Il quinto atto, Neve rosso sangue, è una ballata "drammatica", spiccano flauto e chitarra acustica oltre alla voce che canta rigorosamente in italiano - liriche ricche di metafore e termini aulici o poetici, come anche nelle altre tracce, al punto che sembrano tante belle immagini prive di un nesso. Il ritornello è molto bello, ma la canzone è piuttosto ripetitiva. Bella, ma ripetitiva.
L'atto sesto, Erian's lost secrets, si apre con cori epici - adorabile l'urlo che chiude l'introduzione - e via con gli accordi distorti a ritmo di marcia nella strofa. Il ritornello ricorda molto i primi album. La parte finale della traccia riprende il tema principale dell'album - ovvero quello dei Fuochi di Har-Kuun.
Il settimo atto, The angel's dark revelation, è la conclusione narrata da Christopher Lee, in sottofondo orchestra, cori, qualche campana, e si riprende il tema principale (si ha l'impressione di ascoltare un trailer, finché la narrazione non finisce), e così si conclude l'album.

I Rhapsody of Fire hanno fatto grandi cose in passato. Sono i tamarri del power/epic/progressive, esaltano i tratti Fantasy ed epici del genere, e producono un vero e proprio Sword & Sorcery in musica.
Non sorprende che a non tutti i metalheads piacciano, forse proprio per questa loro polarizzazione verso il fantasy e il medioevo idealizzato (finto, insomma), nella musica così come nei testi.
C'è da dire che la band vanta una voce portentosa, che al contrario di altri gruppi, nelle parti in italiano non suona affatto imbarazzante. Anzi. Analogamente per quanto riguarda il talento degli altri membri. Le strumentali sono variegate, le melodie che cambiano insieme al ritmo all'interno dello stesso brano non annoiano (tranne che per Neve rosso sangue, che tutto sommato però è bella e la ripetitività si sopporta).
Tra gli ultimi album che hanno prodotto in questi cinque o sei anni, ritengo che questo sia il più bello. Non arriva a Dawn of Victory, magari, o ad altri piccoli capolavori, ma se vi capita, soprattutto per gli amanti del fantasy tamarro (non nella narrativa, ma in giochi e musica), tutto spade, draghi e magie, vi consiglio di ascoltarlo.

mercoledì 17 agosto 2011

Impressioni | I Giardini della Luna, di Steven Erikson

i giardini della luna steven erikson fantasyHo cominciato a leggere I giardini della Luna (d'ora in poi: I giardini) qualcosa come cinque anni fa o poco meno - nonostante la copertina orribile, frutto della peggiore bimbaminkia che si pimpa le foto e le mette su Facebook.
L'ho ricominciato due volte, e per due volte ho dovuto interrompere. Interruppi la lettura, la prima volta, perché mi stava piacendo a tal punto che non volevo finirlo senza avere pronto il seguito. La seconda, per colpa dell'inizio dell'università.
Con l'estate, tempo libero, senza esami, mi ci son messo.
Ebbene, il mio giudizio finale si può riassumere con: 'Nsomma.
In giro si diceva che Erikson ti spiazza, che parte in medias res, che capisci tutto solo un bel po' dopo la metà del romanzo.
Be', è vero e non è vero.
L'inizio in medias res di solito è cosa buona e giusta, ma come tutte le cose, se una cosa va fatta, va fatta bene. E non è fatta bene, nei Giardini. In realtà, nei Giardini, molte cose non sono fatte bene: è un romanzo buono che zoppica e cade su uno stile approssimativo, che non raggiunge la sufficienza necessaria a permettere al lettore di godere degli elementi della storia.
Steven Erikson non show, ma manco tell. Ha la capacità di raccontare cose che invece meritano dettagli e approfondimenti, e di mostrare cose assolutamente inutili.
Un esempio.
La locanda della Fenice è un posto che viene descritto, e dico descritto, quanto basta per poter creare un'immagine nella mente, solo a pagina 397 di 516. Nonostante fosse apparso più e più volte duecento pagine prima e rappresentasse anche un luogo piuttosto importante per lo svolgimento della storia.
Ma fino a pagina 397, nella mia mente c'erano solo nebbia e tavoli di legno coi personaggi seduti attorno. Per qualche assurdo motivo, infatti, Erikson descrive la pozza di birra versata sulle assi del tavolo, le quali lasciano spazio a una fessura abbastanza larga in cui Paran decide di infilare la spada. E il narratore ci dice anche che "Le assi erano state fissate coi bulloni a un telaio egualmente robusto. Ottimo. Ma... Il resto della locanda? Si può sapere com'è fatta?
Lo stesso vale per gli svariati luoghi: una manciata di termini generici per indicare una strada, un panorama, che sono privi di sostanza e non rendono alcunché, e questo mi fa davvero incazzare, perché delude la mia sincera voglia di calarmi nella storia. Ne esco solo con continui grattamenti di testa.
E oltre ai luoghi ci sono anche le armi, che Dio solo sa che forma hanno: Anomander Rake ha una spada bella grande dietro la schiena, oscura, buia, antica (termine che piace molto a Steven). Il narratore non ci dice granché.
L'Aggiunto Lorn ha una figherrima spada Otataral (dal potere assurdo): fatta di un minerale rossastro. Poi chi lo sa che forma ha l'elsa, la lama, il pomo, quanto pesa, come si comporta in combattimento, boh.

Non son degni di descrizioni nemmeno i personaggi. Può capitare una mezza descrizione, ma scompare nella marea di parole: è saggio, per un autore, ricordare l'aspetto dei personaggi al lettore, perché chi legge non memorizza tutto a macchinetta, bisogna colpirlo, bisogna accompagnare le capacità cognitive di una persona nella ricostruzione del mondo interno dell'autore. Non è facile, ma si presume che uno scrittore lo sappia fare. Quindi, scopro solo verso la fine del romanzo che un personaggio ha la pelle nera, un altro gli occhi a mandorla, un altro aveva i capelli a coda. Se è stato detto più e più volte, la colpa è mia, non sono stato attento. Ma non credo.

La descrizione mancata è una pugnalata all'ambientazione. Ci sono diverse razze, ma sebbene una sia sempre più antica dell'altra, non ho ben capito in cosa differiscano. I T'Lan Imass mi affascinavano, ho capito che sono morti, sebbene qualcuno viva, e che quindi scricchiolano perché cadaveri o giù di lì. Ma è tutto confuso e avrei voluto creare un'immagine precisa da collocare negli eventi narrati. Poi ci sono i Jaghut, i Moranth, ma boh, compaiono spesso ma il narratore li fa parlare, li fa muovere, ma oltre al dettaglio scappato per sbaglio, nella testa c'è solo una sagoma standard col punto interrogativo sopra.

Un grave problema di Erikson sono i pov. Forse a quel workshop di scrittura creativa lui era andato in bagno proprio al momento della lezione sui pov, chissà.

Fatto sta che li usa come vuole, senza freni, ad minchiam, con esiti disastrosi:

Paran si alzò, slacciando il cinturone. Lo posò sul tavolo, poi estrasse Fortuna.
I pochi clienti regolari del bar ammutolirono, girandosi a guardarlo. Dietro il banco, Scurve allungò la mano verso il suo bastone.

Paran, il protagonista, non è un assiduo frequentatore del posto. Quindi non può sapere quali siano i "pochi clienti regolari del bar".

Inoltre, è chiaro che l'azione di Scurve - il locandiere - che "allunga la mano verso il suo bastone" è totalmente fuori dal campo visivo e cosciente di Paran.

Il risultato che si ottiene è una buona scena per un film (Paran che si alza e si slega il cinturone, cambio inquadratura sui volti preoccupati dei clienti che si guardano, cambio con inquadratura "nascosta" nel bancone che riprende Scurve dal basso mentre afferra il bastone).

Per un film va bene, per la prosa no. Non che qualcuno lo vieti, ma se la stessa scena venisse scritta omettendo l'onniscienza del narratore non si perderebbe nulla. E, se si aggiungessero invece dettagli da in-pov, si assorbe di più la personalità del personaggio e la credibilità della scena.

Inoltre, stilisticamente parlando, scegliere di adottare un pov e poi saltare a un altro - come avviene più e più volte nel corso del romanzo -, è come fissare delle regole e poi non rispettarle. Un po' come giocare in due a scopa napoletana, e al momento della scopa di uno l'altro dica: "No, questa è la scopa francese, si prende l'11 e il 13".

O ancora, è come se la Gioconda fosse stata dipinta così com'è ma col volto cubista.

O come se in una composizione in 4/4 in un'orchestra uno strumento andasse per i fatti suoi a tempo di valzer, 3/4.

Questa faccenda dei pov si complica ulteriormente a causa dell'incapacità di Erikson nell'usarli, più (combo) l'incapacità descrittiva dello stesso per i personaggi.

Attraverso gli occhi di un personaggio, infatti, il narratore "presenta" un altro personaggio, conosciuto e dotato di pov in altre pagine, come una persona sconosciuta.
Dato che non dà ai personaggi dettagli stabili che li contraddistinguino, e non sapendosi destreggiare coi pov, va a finire che indica con epiteti pronominali personaggi già conosciuti ma rendendoli sconosciuti. "L'uomo fissava Tizio, mettendolo a disagio. Tizio disse:" E poi dopo qualche riga Eriskon smette di chiamare il nuovo arrivato "l'uomo" (o "la donna", o "la figura") ma lo chiama per nome. WTF?! Non poteva farlo prima? Confonde e basta.

Ma Erikson non ha idea di come funzioni la prosa, perché usando i pov a suo piacimento, dà le informazioni che ritiene necessarie, come preferisce, e così facendo pretende di creare colpi di scena.

C'è una scena che si apre con un protagonista "sconosciuto". Ora, in realtà questo è un personaggio che ha già goduto di pov e di altre scene. Ma in questa scena, è in altri panni, sotto copertura. Così, Erikson ha ben pensato di camuffare pure il pov e sviare il lettore. La scena si conclude in questo modo:

"Che Nerruse ti benedica", esclamò, il volto gioioso. "Affare fatto, amico. Ehi, non so nemmeno come ti chiami!"
Il Violatore del Cerchio sorrise, poi glielo disse.

Se il pov fosse stato del primo personaggio (una guardia), questa scena avrebbe senso. Ma la scena è narrata attraverso gli occhi del protagonista, che però è allo stesso tempo un altro personaggio. Non può esistere un colpo di scena simile, perché significa prendere in giro il lettore: puoi farlo con una macchina da presa, perché con le immagini puoi "mentire". Ma non con la prosa! Stai usando un dannato pov! Il pov deve essere trasparente! Si tratta di prendere una posizione e continuare con coerenza!
Dal punto di vista stilistico più "terra terra", ci sono avverbi a profusione e infodump non richiesti o mascherati con l' "as you know, Bob".
I personaggi (protagonisti) poi sono tutti militari o affiliati. Fa molto MMORPG, dove il mondo è composto solo da giocatori guerrieri e maghi, e i veri abitanti sono solo sparute comparse sbiadite. Oltretutto, a parte quache eccezione, come Kruppe e Crone, che parlano in terza persona, tutti gli altri personaggi parlano alla stessa maniera. Tutti. E i dialoghi di rado sono interessanti, perché si discute di strategie di guerra e di politica. Ora, le strategie possono essere interessanti, ma solo quando si hanno i dettagli sufficienti ad appassionare, quando il dialogo è ben reso, e quando hanno un senso. Nel romanzo però mi hanno lasciato perplesso pressoché tutte le operazioni o i piani bellici. Non sono giustificati, o comunque dai dialoghi non si ricava un senso. A fine romanzo, molti eventi che sono accaduti e passati mi sono rimasti oscuri.

Allo stesso modo la politica. Sono tutte chiacchiere vuote, l'ambiente politico non esiste, se ne parla ma non c'è, non è chiaro il ruolo del Consigliere, visto che non è l'unico politico, e non si sa chi altri c'è, nella città di Darujhistan, ad avere potere e così via.
E' tutto molto confuso e privo di senso.
Non si prende sul serio nemmeno la vita. Esistono Corporazioni di ladri e di sicari, come nel miglior Elder Scrolls, ma paradossalmente si parla di uccidere e morire così come se ne parla in un cartone animato o in un videogioco. Nel romanzo i personaggi non danno peso alla vita e alla morte, sembrano bambini. Eppure, in svariati punti del romanzo si lasciano andare in meditazioni allunga-brodo sulla vita, sulla morte, su quanto sia terribile. Epic fail.

I personaggi dei Giardini poi parlano da soli ad alta voce. "E ciò è totalmente assurdo", mormorò il Taotor, fermo con le dita sulla tastiera, mentre osservava il monitor. "Le persone non danno voce ai propri pensieri con tale frequenza, è ridicolo. E soprattutto, non lo fanno in particolari condizioni."

Un esempio pratico tratto dal romanzo. L'Aggiunto Lorn ha appena scavalcato un muro per fare qualcosa di importante, ma a quel punto si sente di dover riflettere sul significato della sua vita:

"Non serve nascondersi", mormorò, posando uno sguardo cupo sulle foglie morte e i rami intorno a lei. "Non serve".

(...)

"La missione dell'Aggiunto", mormorò, "è quasi giunta al termine."

Troppo LOL, poi, lei che parla di sé in terza persona con tale sollenità. LOL!

Ci sono poi dettagli che mi hanno fatto storcere il naso.

L'ambientazione, per esempio, dovrebbe essere medievaleggiante, fantasy classico. Ma è "arricchita".

I personaggi prendono brocche dalla mensola sul camino e versano vino nei calici. Io mi sono immaginato una cosa molto radical chic, con un po' di smooth jazz in sottofondo e grossi calici di sottile vetro soffiato.
Ma in un'ambientazione medievaleggiante mi aspetterei dei boccali di argilla, o ceramica, o legno, o magari dei corni.

L'illuminazione stradale a gas, altra cosa. Non che non possa esistere, ma mi ha fatto storcere il naso. Se non sbaglio l'illuminazione a gas in Europa è arrivata nel XVIII, XIX secolo. Ma potrei sbagliarmi, e comunque non sarebbe impossibile, visto che comunque è un mondo con la magia. Ed è fantasy!

Una scena mi ha lasciato perplesso. La incollo in lingua originale, così si può cogliere l'orrore in -ly e i "disse" pompati di steoridi.

As they passed along the counter, Scurve looked at them warily.

Kalam released an exasperated curse and, in a surge of motion, reached out and grasped him by the shirt. He pulled the squealing innkeeper half-way across the counter until their faces were inches apart.

'I'm sick of waiting,' the assassin growled. 'You get this message to this city's Master of the Assassins. I don't care how. Just do it, and do it fast. Here's the message:

Perché diamine un "innkeeper" - l'unico che gestisce la baracca, stando a ciò che è scritto - dovrebbe fare da messaggero? Che c'entra? Perché trattarlo in quel modo? E chi bada alla locanda? E poi, con tutti i sicari che ci sono in giro, il locandiere potrebbe assoldarne alcuni e uccidere quei rompiscatole che entrano, escono, lo maltrattano e fanno i comodacci loro.
In alcuni punti, poi, la narrazione è confusa e - almeno io - non ci ho capito niente. Nella seguente scena, oltre alla confusione di eventi non mostrati ma raccontati alla bell'e meglio (senza risultato) si somma anche il raccontare generale che, non specificando nulla, cade nel ridicolo: [versione italiana]

Whiskeyjack, paralizzato, guardò incredulo il corpo di Ben lo Svelto urtare quello della donna. Entrambi si scontrarono con il servo, e tutti e tre caddero a mucchio. Il flusso ondeggiante di energia si aprì un varco attraverso la folla allibita, incenerendo tutti quelli che toccava. Al posto di uomini e donne, rimase solo cenere bianca. L'attacco si ramificò verso ogni cosa in vista. Alberi si disintegrarono, pietra e marmo esplosero in nubi di polvere. Persone morirono; in alcuni, parti del corpo semplicemente sparirono.

Da notare: non so chi sia il servo che urtano. Nel complesso la scena mi ricorda Mars attacks! di Tim Burton, con gli alieni con le pistole a raggi che polverizzano la gente.
Fastidiosissimo poi il raccontare e non mostrare e pretendere che il lettore abbia tanta fantasia per compensare quella che manca all'autore. In un punto del romanzo, per esempio, Erikson indica "poltrone lussuose". Lussuose. Mah. Definire "lussuose"?

O ancora:

Giunto all'estremità del tavolo si trovò davanti all'ometto grasso seduto in una confortevole sedia antica

Cosa contraddistingue l'essere confortevole? L'imbottitura? Il design? In un'ambientazione medievaleggiante cosa si intende per "antica"? E ancora di più, se in questo mondo ci sono persone che vivono migliaia di anni, quanto può essere antica una sedia? Antica. Mah.
La mancanza di coerenza e di "materialità" dell'ambientazione risulta fastidiosa quando i personaggi usano termini ampiamente rimpiazzabili come "status quo". Allo stesso modo, nel testo originale l'autore indica la Festa di Lady Simtal col francesismo "Fête". Nella mia ignoranza credo che anch'esso possa essere rimpiazzato. Ma, finché viene usato dal narratore a scopo indicativo, si può soprassedere.

I Giardini, nonostante le fastidiose e numerose lacune, tutto sommato non mi è dispiaciuto.
Ci sono svariate ottime idee, l'uso della magia è massiccio ma tutto sommato ho apprezzato il modo in cui viene sfruttata, i Canali, la qualità di ognuno di essi, le razze dei non-umani ecc.
Ho apprezzato anche la presenza degli dèi; ma continuando a leggere ho trovato invece la loro caratterizzazione ridicola: è assurdo il modo in cui si comportano, parlano e pensano delle entità divine. E ancor più assurdo è che si interessino in maniera così morbosa ai fatti degli umani.
Nel complesso, tra i pro e i contro, credo che leggerò anche il secondo volume. Le trovate magiche in stile S&S mi intrigano.
Ma mi riserverò la lettura del secondo in lingua originale: forse, e dico forse, può risultare più gradevole, tralasciando gli orrori di traduzione come "La caduta di Malazan" per "The Malazan book of the Fallen".
Brrr. E li pagano pure.

martedì 2 agosto 2011

Impressioni | Stand up and fight, Turisas (2011)


Parlai dei Turisas qui, due anni fa.
Dissi che di quell'album apprezzavo solo la metà delle tracce.
Non posso dire altrettanto per quest'ultimo lavoro.
I toni sono epici, più epici del precedente.
L'apertura con la prima traccia, The march of the Varangian Guard, trionfale, è indicativa del livello di epicità e di aggressività dell'album - e dello stile della band. Fiati, archi e cori in tonalità da kolossal. Non mancano gli assoli, non banali virtuosismi; si riprende il tema principale, lo si arricchisce di scale quanto basta per ritornare nell'abbraccio dell'orchestra.
Il secondo brano, Take the day!, a mio avviso è un gradino più in basso: motivetto tormentone, ben sviluppato. La voce di Mathias "Warlord" Nygård è profonda, pulita, sa essere dolce e aggressiva col growl.
La terza traccia, Hunting Pirates, è allegra canzone piratesca, si avvale di cornamuse, fisarmonica o organetto, e allenta il tono epico per avvicinarsi di più allo stile degli Alestorm - la voce rauca e gracchiante accentua la cosa.
La quarta traccia, βένετοι! - πράσινοι!, per i profani Venetoi! - Prasinoi!, è frenetica, un po' per i toni e un po' per i contenuti. I Veneti e i Prasinoi erano gruppi circensi diffusi nelle città bizantine. Per ulteriori informazioni, procuratevi un libro di storia o date un'occhiata qui. I contenuti dei brani dei Turisas non sono fantasy, e non sono nemmeno "banalmente" folk. Si parla di Bisanzio, di Costantinopoli, di Mediterraneo: non dèi norreni kickass in stile Amon Amarth.
Il quinto brano, Stand up and fight, title track, non si discosta dagli altri. Epico, vario nonostante la ripetizione del tema centrale.
Allo stesso modo la sesta traccia, The great escape, con un riff accattivante.
Fear the fear, numero sette, la vedrei bene in qualche film storico ambientato nell'alto medioevo, o in tarda età romana; ritornello suggestivo.
End of an empire, ottavo brano, è incredibilmente vario nonostante non perda di vista il tema centrale, ritmo incalzante, lento intermezzo di piano, arpeggio rapido sopra a cavalcate distorte, cori e archi, ed ecco che l'acme dell'epicità si raggiunge col ritornello, un coro seguito da un growl piuttosto sentito. Come nel precedente album, anche questa traccia termina col "Gran Finale".
Incredibilmente toccante ed evocativa l'ultima traccia, The Bosphorus freezes over: un delicato inizio di archi, assomiglia quasi all'Overture 1812 di Tchaikovsky, ma prosegue (coerentemente) coi toni epici che caratterizzano l'album, in questo brano i cori sono prettamente maschili, avvicinandosi quasi (quasi) al canto gregoriano. Incantevole, davvero, il tema centrale che riprende il brano precedente. In tutto ciò non mancano le chitarre distorte.
Due bonus track chiudono effettivamente l'album.
Una è Broadsword. Ritmo stabile, lento, ripetitivo, militare. Assolo misurato ed efficace (ottimi botta e risposta con la tastiera).
L'altra è Supernaut, completamente diversa dal resto dei brani. Un brano rock, una voce hard rock e un ritornello allegro. Potrebbe ricordare vagamente un Enter Sandman, l'assolo simil-Slash, a un tratto si sente addirittura il motivetto di Ghostbusters.

Per concludere.
Ritengo che, attualmente, i Turisas siano l'unica band che riesce a coniugare senza alcuna dissonanza il metal, l'epicità e le melodie orchestrali, senza cadere nel "già sentito" del folk né nella tamarragine hollywoodiana dei Rhapsody of fire (a cui va tutto il mio rispetto, ma sarebbe come paragonare A song of Ice and Fire a Dragonlance.). I testi sono assai belli, e per i metalloni estimatori delle civiltà antiche, della tarda Repubblica romana, delle invasioni barbariche e di tutta quella roba, credo che Stand up and fight possa rappresentare una pietanza succulenta.