venerdì 29 novembre 2013

Due parole non richieste sulle opportunità della pubblicità nella narrativa digitale

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Ovviamente son tutte balle. Nessuna industria del tabacco mi ha (ancora) pagato per ospitare annunci pubblicitari sul blog. In Italia, oltretutto, la propaganda di tabacchi lavorati è anche vietata da qualche decennio. Ma il punto è: quanto è bella questa locandina pubblicitaria? Mettendo da parte il tabacco, quanto può infastidire l'immagine pittoresca di un uomo solitario, accampato con un fuocherello vicino a una piramide, che si accende una Camel mentre il sole tramonta dietro la duna?
Alcuni anni fa ho avuto l'opportunità di sfogliare alcuni linus, in particolare i numeri che andavano dagli anni '70 agli anni '90. Sono rimasto affascinato dalle pubblicità, come per esempio quella delle calcolatrici Texas Instruments, della Fiat Panda adatta ai giovani (e in aggiunta gli slogan sulla sua bellezza, letti vent'anni dopo, sono ridicoli), e delle sigarette Camel.
Purtroppo su Google non sono riuscito a trovare quella che mi è piaciuta più di tutte: un presunto esploratore (come quello qui sopra), sdraiato su un'amaca annodata a due alberi in un paesaggio esotico, che con una mano regge un libro e con l'altra si spippetta una Camel.
Vuoi per il gusto vintage, vuoi per il fascino esotico, a mio avviso quella pubblicità era una piccola opera d'arte, impreziosita dal tempo e chi lo sa, probabilmente ha impreziosito, di rimando, anche la rivista che la ospitava.
A prescindere dalle ovvie questioni di salute (fumare fa male), una pubblicità come la suddetta è esteticamente bella, persuasiva nei giusti limiti, e soprattutto permette alla rivista di esistere. Oltretutto la stessa Camel, che dapprima spacciava il suo marchio come il preferito dai medici, dopo l'ignoranza degli anni '40-'50 ha aggiunto quella piccola scritta relativamente al danno del fumo. Sebbene siano caratteri minuscoli, si tratta pur sempre di coerenza e rispetto, al contrario per esempio di pubblicità che affermando che "la cellulite è una malattia" vogliono venderti il loro prodotto inutile, o che quando ti lavi i denti le gengive ti sanguinano e hai bisogno necessariamente del loro dentifricio: questo è terrorismo psicologico basato sulle credenze false delle persone (suggestionabili).
La Psicologia Sociale insegna che per i prodotti di uso pratico, le pubblicità si concentrano sugli aspetti di efficienza e qualità del prodotto, mentre per quei prodotti che essenzialmente non servono a nulla (un profumo, o un whiskey), ci si concentra su fattori di desiderabilità sociale (basandosi sul fatto che persone con alto automonitoraggio, cioè con la tendenza a cambiare a seconda delle richieste dell'ambiente sociale, sono più suscettibili ai tipi di messaggio che riguardano per esempio lo status).
Chiedo scusa per la lunga premessa, ma mi sembrava necessaria per discriminare le pubblicità per così dire "oneste" da quelle "disoneste" (terrorismo psicologico).
Il discorso dell'utilità delle pubblicità l'ho già affrontato con altre persone su vari blog. A mio avviso la pubblicità è un'arma poco sfruttata che farebbe guadagnare tutti.
Per vendere i loro prodotti, le aziende hanno bisogno prima di tutto che la gente li conosca, e per fare ciò hanno bisogno di un mezzo per comunicare che il prodotto (o il servizio) X è in vendita ed è migliore di altri.
Basti pensare alle serie tv (americane, almeno): escludendo i finanziamenti del network o i ricavi per gadget e surrogati, una buona parte del guadagno deriva dallo spazio venduto alla pubblicità (gli ad). Cioè le aziende pagano per piazzare 15-30-60 secondi di spot poco prima della puntata, nel mezzo, o dopo.
Pensiamo alla pubblicità cartacea lasciataci nella cassetta della posta. Non so voi ma da me arrivano certi libretti di carta plastificata, con fotografie a colori vividi di poltrone e arredo: essenzialmente spazzatura di alta qualità. Ma fa ridere pensare poi che un paperback (carta scarsa, completamente bianco e nero) venga a costare 10€.

Ora, io non me ne intendo di marketing, ma appare abbastanza chiaro che la pubblicità si può sfruttare in molti modi per diversi fini, anche quelli quasi filantropici.
Tempo fa pensai: e se i romanzi venissero pubblicati con inserti pubblicitari all'interno? Il libro cartaceo potrebbe venire a costare meno (mi riferisco ai paperback, non alle edizioni da collezione). E sarebbe grandioso se si potesse fare una cosa simile anche con testi didattici, così da poterli rendere economicamente accessibili a tutti.
Alcuni siti piuttosto frequentati ospitano banner che, grazie alla popolarità del sito, possono ricevere un po' di visibilità (e, presumibilmente, incrementare le vendite). Non sarebbe possibile fare una cosa simile con gli ebook? Piuttosto che vendere un romanzo particolarmente popolare sarebbe bello poterne vendere la popolarità stessa: ebook gratuiti in cambio di inserzioni pubblicitarie.
Non mi sembrerebbe così assurdo se in un ebook dovesse esserci la pubblicità - mettiamo - dell'ultimo eReader di Amazon o di Kobo. Considerando che tanti lettori, come me, cercano informazioni sugli ultimi eReader, la pubblicità del nuovo modello Vattelapesca dell'azienda Taldeitali all'inizio di un capitolo non mi darebbe fastidio, anzi: se caratteristiche e prezzo dovessero soddisfarmi, me lo comprerei. E perché no, come già è stato fatto con Kobo, non sarebbe una tragedia avere un eReader più economico in cambio di piccoli banner pubblicitari nella home (a condizioni accettabili).
Se io fossi un'azienda di qualche tipo, valuterei la possibilità di, per esempio, "finanziare" uno scrittore che va forte perché scriva un'opera che la mia stessa azienda provvederebbe a distribuire gratis col mio marchio sopra. Ci guadagnerebbe lo scrittore (probabilmente non uno Stephen King che guadagna sicuramente di più pubblicando dal nulla quello che gli viene in mente mentre fa la spesa), sia in denaro che in maggiore visibilità, sia la mia azienda, che sfruttando un mezzo (la narrativa) potrebbe allargare la fetta di acquirenti.
O perché no, potrebbe essere la stessa azienda che, grazie alla propria popolarità, potrebbe distribuire con un maggiore impatto un romanzo, un certo numero di autori, un genere, una casa editrice indipendente che però pubblica opere meritevoli ecc. Se domani dovesse nascere l'equivalente dell'Eraserhead Press ma con un altro nuovo genere mind-blowing, e se l'alta qualità delle opere non dovesse bastare a renderla famosa, un qualche tipo di sponsor potrebbe, in qualche maniera, tornare utile a farla emergere, o no?
Oppure prendiamo Steam: una piattaforma per ebook (e perché no, anche macro-aggregatrice di altre piattaforme), piuttosto che per videogiochi, sarebbe possibile? Gioverebbe? Farebbe emergere capolavori inaspettati? Molti giochi indipendenti con Steam sono saltati all'occhio e hanno avuto successo (con gran piacere di migliaia di gamer).
Personalmente, troverei grandioso se qualcuno si mettesse a distribuire gratuitamente "episodi" narrativi, avvincenti, di una qualche storia (fantasy, horror, storica, quello che vi pare), il tutto supportato da sponsor pubblicitari, allo stesso modo delle serie tv. Così che quando torni a casa, quel giorno della settimana, invece di mettere a scaricare l'episodio della sitcom preferita, scarichi una puntata "narrativa", il cui andamento potrebbe essere influenzato dall'impatto degli ascolti. Sì, i ritmi di lettura sono diversi da quelli degli spettacoli tv, ma sono convinto che la cosa sia possibile, e non solo: riuscire a scrivere capitoli leggibili per esempio in 30 minuti, che riescano veramente a intrattenere, a sviluppare un climax, che contengano un forte hook e un cliffhanger mangiaunghie, significherebbe essere scrittori davvero abili.

Insomma, non parlo di nulla di nuovo. Mi rendo conto che il discorso non sia originale e che di fatto esistono interi staff di persone qualificate e strapagate per avere idee simili e sicuramente migliori, ma mi rendo anche conto che non ho mai visto iniziative che abbiano veramente provato a dare una svolta in questo senso - nell'ambito dei romanzi/ebook.
Certo, mettere a confronto un pubblico di gamer con uno di lettori è assurdo, e lo stesso vale per film, serie tv o musica. Immagino che si facciano meno soldi con la narrativa. Ma è anche vero che le cose stanno cambiando: se i lettori non fossero così tanti, non ci avrebbero nemmeno pensato a inventare gli eReader e tutto il resto, eppure è successo, e i dati delle vendite fanno ben pensare.
Evidentemente modi nuovi di fare le cose o vivere esperienze ha portato a una più diffusa fruibilità di materiale che prima non godeva della notorietà di cui gode ora.
Ok, forse sto delirando, ma magari c'è qualcuno là fuori che leggerà questo post e che vi troverà spunti utili per poter arricchire l'esperienza della lettura di intrattenimento.

venerdì 15 novembre 2013

Impressioni | Player Piano, di Kurt Vonnegut

kurt vonnegut player piano piano meccanico recensioneNon ho la più pallida idea di come sia finito a leggere Vonnegut, forse perché era nella lista di autori da cui poter apprendere qualcosa, non ricordo. So solo che pensavo di andare a leggere un classico della fantascienza, una distopia con speculazioni sulla società e via discorrendo, ma mi sono ritrovato (con mio grande piacere) con un interessante sci-fi (soft) piuttosto dieselpunk.

In sostanza Piano meccanico narra del dilemma etico del protagonista, Paul Proteus, capo dell'industria di Ilium, New York, immerso nel sistema efficiente basato sul know-how che domina la società americana in seguito a una ipotetica III Guerra Mondiale (da cui ovviamente l'America esce vittoriosa). Il sistema a cui ogni cittadino è costretto a sottostare è basato su una differenziazione degli individui in base al loro Q.I ¹ e, di conseguenza, in base ai ruoli che il proprio intelletto permette di rivestire (con una velata ghettizzazione tra dirigenti e ingegneri da un lato della città e, al di là del fiume, gli operai e tutti gli altri). Ma Paul Proteus avverte la dissonanza che il sistema gli provoca e così anche i cittadini, e ciò porterà lui e la popolazione ad agire di conseguenza.

La prosa di Vonnegut è semplice e chiara.
Non mi esprimo sulla storia in sé: sono sempre del parere che stile e idee vengano prima, e in questo caso non ho granché da aggiungere sulla storia.
Vonnegut sa essere geniale in maniera semplice, e al contempo è in grado di cadere in trovate narrative approssimative e naive.
Il suo genio, a mio avviso, sta in piccolezze quali l'inserimento di dettagli realistici fini a sé, che rendono la narrazione credibile:
L'uomo scarabocchiò qualcosa su un pezzo di carta. Teneva il foglietto sul cofano, e per due volte buco la carta con la matita passando sopra a una scalfittura. «Ecco, qui c'è il mio nome. Se ha della macchine, io sono il tipo adatto a farle andare (...)»
Le cadute di stile sono, per capirci, gli errori grossolani, la narrazione in lingua scrittorese. In questi casi Vonnegut entra nel pericoloso territorio degli 8 orrori narrativi che mi fanno abbandonare un romanzo e perdere fiducia nel genere umano™:
Un giovane di bassa statura vestito normalmente, con grandi occhi infinitamente saggi, si appoggiò contro il tavolo del separé di Paul e di Ed, guardando la televisione con una particolare attenzione. Si volse verso Paul con aria sbadata. «Che cosa crede che stia suonando?»
"Grandi occhi infinitamente saggi."
A parte questo, Vonnegut cade spesso anche nell'infodump secondo lo schema: ingresso del personaggio - descrizione background del personaggio - definizione delle sue dinamiche interne, della sua personalità, dei suoi obiettivi. Nel migliore dei casi l'infodump si riduce a riassunti ricchi di informazioni che però dipingono in fretta, nella maniera più breve e completa, situazioni già avvenute che è necessario il lettore conosca.
Ma il genio (opinione criticabile, me ne rendo conto) di Vonnegut si può ammirare nel modo in cui cambia registro narrativo a seconda delle esigenze della storia.
Tralasciando il flusso di coscienza di joyceiana memoria, attribuito a un personaggio minore (ha un solo paragrafo-POV, se non ricordo male), un soldato semplice, che è stato divertentissimo leggere, a un certo punto della storia c'è una rappresentazione teatrale, e in che maniera la mostra Vonnegut? Ma è ovvio, con la struttura di un copione:
JOHN. (Fischia sottovoce) Non c'è dubbio! (Indica all'improvviso il contestatore, che appare molto irrequieto.) Ma lui ha detto...
GIOVANE INGEGNERE. Abbiamo risposto a tutto ciò che ha detto John. E vorrei aggiungere una piccola riflessione.
Questo ovviamente era solo un estratto esemplificativo.

Tra una trovata stilistica geniale e una scelta narrativa ingenua, Player Piano riesce ad arrivare con forza alla mente del lettore, con la sua ambientazione, i suoi personaggi, con l'ideologia del sistema sociale ecc. Sebbene si possa dire che rappresenti il classico romanzo di critica sociale che tipicamente "invita il lettore a riflettere" (il genere di roba che gli insegnanti ruba-stipendio del liceo ti spacciano per opere d'arte irraggiungibili), Player Piano è, a mio avviso, un godibilissimo gioco di what if che, speculazione sociologica a parte, offre un'ambientazione dieselpunk suggestiva e assai credibile: si può dire che, a differenza di molti autori di fantascienza, Vonnegut abbia profetizzato con accuratezza gran parte dello stile di vita moderno.

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Note:
¹ - Se Vonnegut avesse scritto il romanzo qualche decennio più tardi, probabilmente il ragionamento di fondo sarebbe stato diverso, e la società da lui immaginata non si sarebbe basata così tanto sul Q.I. Nonostante il "miglioramento" della scala Stanford-Binet (1916) con la più moderna WAIS di Wechsler, a oggi arrivata alla IV edizione, la concettualizzazione di quoziente intellettivo in un certo senso lascia il tempo che trova. Sono state scoperte nel tempo altre "intelligenze" che le scale classiche fino a quel momento avevano trascurato, e in generale la Psicologia Cognitiva e la Psicologia Clinica (insieme alla Psicometria) hanno negli anni dimostrato quanto l'individuo sia complesso e contraddittorio: se può sembrare scontato a noi di questo secolo, non era proprio così tra la fine dell'800 e gli inizi del '900, periodo in cui ci si affidava addirittura alla Frenologia o ad altre convinzioni non-scientifiche.
Ad ogni modo, proprio in virtù degli esigui studi in materia all'epoca, nonché dello scetticismo verso tali argomenti, affrontati da una disciplina troppo giovane qual era la Psicologia, non è un caso che l'idea di fondo del romanzo sia praticamente un'esasperazione per poter speculare un po' sul what if di base. La costruzione di un sistema in base ai contributi scientifici un'utopia: nessun governo è mai stato fondato sui risultati delle ricerche scientifiche al fine del miglioramento della società, delle leggi e delle istituzioni; basti vedere come il nostro stesso paese sia, nella gestione, anti-scientifico, illogico, tutto l'opposto della distopia di Vonnegut: in Italia sono gli analfabeti e coloro che hanno un QI basso ad essere al potere.

giovedì 7 novembre 2013

8 orrori narrativi che mi fanno abbandonare un romanzo e perdere fiducia nel genere umano

Chi ha letto qualche mia impressione fulminante sa che mi rompo facilmente a leggere un romanzo, se ci sono aspetti che denotano scarsezza. Il tempo è denaro, ma la cosa più importante è che paradossalmente per perdere tempo una persona si ritrova anche a dover pagare, e questo è ovviamente il caso dei romanzi scarsi.
Per dissonanza cognitiva, però, può capitare che l'atto di aver speso del denaro per quel romanzo convince una persona a proseguire la lettura e dare un senso al comportamento precedente. Un conto però è spendere 20€ per un libro a copertina rigida, un altro è spenderne 1 per un ebook (anche se di questi tempi è più probabile spendere 7-10€ per un ebook, e ciò è vergognoso, quindi tanto vale piratarlo - poi però, se l'opera merita, un po' di buona pubblicità non può che far bene, se non si vuol comprare il romanzo in originale).
Veniamo a noi.
Questi punti non rappresentano lezioni di scrittura, sebbene alcuni li abbia sviluppati proprio in virtù di qualche manuale o in seguito alle bacchettate del Duca sulle nocche, ma rappresentano principalmente riflessioni personali su come alcune scelte narrative siano così scarse da spingere a eliminare il nome dell'autore dal cervello.


  1. Il meteo
    È tipico degli autori scarsi. Anche Palahniuk sconsigliava di raccontare le condizioni del tempo in una storia (se non ricordo male in La scimmia pensa, la scimmia fa), ma, grazie comunque Chuck, la cosa è palese. Se non è necessario, meglio non scriverlo, e se mi capita di leggerlo, per me l'autore parte già con un occhio di biasimo da parte mia. Non che non si possa dire se piove o se c'è il sole, ma mettiamo che il romanzo ti si apra con:

    Capitolo 1

    Il sole brillava tra stralci di nubi di un cielo autunnale. Soffiava una leggera brezza, non troppo fredda, invernale, né calda come l'estate che era ormai trascorsa. Un vento frizzante che...

    In un vecchio post raccontavo le mie abitudini di lettura in bagno. Per mancanza di tempo durante la giornata, è più probabile che io inizi lì un romanzo, e avrò a disposizione pochi minuti, il tempo di fare tutto (ALLERTA: contenuti ad alto tasso di Intellettualità). Se in quei pochi minuti leggo una cosa simile a quella che ho abbozzato sopra, proseguirò di qualche altra pagina per accertarmi che il romanzo sia da buttare, per poi eliminarlo definitivamente e far spazio sul Kindle.
    Questo genere di aperture è tipico dei film. Si possono leggere sceneggiature che cominciano in questa maniera, con un'esterna e uno scorcio sul tempo. La descrizione del clima nella prosa occupa un certo tempo (minuti), mentre in un film pochi secondi.
    Ad ogni modo parlare del tempo, specie in apertura, fa piuttosto pena, e mi fa pensare allo scrittore-poser col bicchierone di Starbucks e il MacBook, che di scrittura non ne sa niente ma gli piace solo credersi scrittore perché fa figo.




  2. L'infodump ingenuo
    L'infodump è brutto più o meno sempre, ma ci sono casi in cui se lo leggo chiudo un occhio, per esempio quando in un romanzo non ce ne sono tanti, o se sono brevi e indolore, o se magari sono lo spirito del romanzo stesso (per esempio, attraverso una narrazione in prima persona in una storia sci-fi o che fa delle idee il suo punto forte). Per esempio, in Terry Pratchett o Douglas Adams l'infodump fa parte dello "scherzo", del tono comico, ma allo stesso tempo dipinge l'ambientazione, e se dovessi toglierlo se ne andrebbe anche una buona parte della potenza narrativa.
    Tuttavia ci sono romanzi in cui l'infodump scorre davvero potente. L'impressione che ne deriva, per me, è sempre quella dello scrittore Starbucks+MacBook, che arriva alla presentazione del personaggio, magari al ritratto (vedi punto 3), e snocciola informazioni sul suo background, lì per lì. Della serie: "non ho idea di quello che dico, sto inventando sul momento, e mentre creo ti rigurgito addosso tutte queste informazioni in modo che, allo stesso tempo, io possa riflettere e capire come posizionarle all'interno della storia, perché sono troppo pigro e non ho abbastanza esperienza per organizzare prima, e narrare con coerenza dopo."
    Personalmente tendo ad avere due file, nella cartella di un racconto lungo: uno è il file della storia in sé, l'altro è un file in cui riporto tutti i dettagli che io devo sapere, affinché possano cementificarsi nella mia mente, adattarsi ai personaggi, all'ambientazione, e dislocarsi nell'ordine degli eventi (quest'ultima cosa è più difficile, per me, e tende a cambiare nel corso della narrazione).
    Un autore che sputa infodump può essere o un autore che sta inventando la storia lì per lì, o un autore che ha già organizzato a parte tutte le informazioni, ma si è dimenticato o non ha voluto eliminarle dal testo definitivo. Per questo merita il mio biasimo.
  3. La tecnica dello specchio
    O meglio la Tecnica del ritratto allo specchio (detta così pare Kill Bill e la tecnica dell'esplosione del cuore con cinque colpi delle dita), è quella scorciatoia pessima in cui il narratore descrive l'aspetto fisico (e nei casi peggiori anche psicologico/temperamentale ecc.) del personaggio evitando la voce onnisciente, per rifugiarsi nel "pretesto" del POV: il pg si guarda nello specchio ed è come se si vedesse per la prima volta, cioè riporta tutti i dettagli sul suo aspetto e abbigliamento.
    Questa tecnica la odio perché è come un trope da film horror, "il nero muore per primo". Un esempio:

    "Prima di uscire si concesse un’ultima occhiata allo specchio. Di media statura, con capelli corti, castano scuro, che avevano un principio di stempiatura. Per il resto Raddavero era però piuttosto giovanile, senza una ruga e con una barbetta sottilissima che curava di giorno in giorno." ¹

    In pratica è l'equivalente narrativo dell'attore di un film che rompe il quarto muro e fa l'occhiolino agli spettatori (rottura del quarto muro intesa non come intenzionale alla Woody Allen).
    È una cosa che odio perché mi fa pensare che l'autore: 1) non abbia mai letto storie in cui si ricorre a questo cliché, così da poter evitarlo, 2) sappia benissimo che è una tecnica abusata ma ritiene che sia Alta Scrittura.
  4. Le descrizioni minute
    È quando hai voglia di morire ogni volta che un personaggio entra in scena, perché l'autore si esalta nel descriverne l'aspetto e soprattutto l'abbigliamento. Palahniuk consiglia addirittura di non descrivere che aspetto abbiano i personaggi, e non ha tutti i torti. La maggior parte delle volte è più che sufficiente descrivere un personaggio con pennellate grossolane, se utile ai fini della storia magari ci si può soffermare su alcuni particolari.
    Dato che questo vizio generalmente è associato ad altre scelte stilistiche pessime, do l'ultimatum a un romanzo non appena mi si presentano scene da sfilata. Per esempio, in Leviathan Rising di Jonathan Green c'è questa pessima tendenza a descrivere l'abbigliamento dei personaggi, il make up e l'acconciatura delle donne (un autore quando insiste sul descrivere la maniera in cui cadono dei boccoli dovrebbe capire che è il momento di smetterla), e via discorrendo. Proprio questo (insieme all'infodump della peggior specie) mi ha spinto a chiudere il romanzo.
  5. I sentimenti esacerbati
    Non è tanto lontano dal concetto di Show, don't tell: alcuni autori tendono a esprimere lo stato d'animo dei personaggi attraverso una lunga descrizione dei sentimenti, veri e propri wall of text.
    Non funziona.
    Da psicologo clinico in formazione posso affermare che è più facile comprendere, dal di fuori (i.e. leggendo) i sentimenti, le aspettative, le credenze di una persona attraverso il dialogo diretto, piuttosto che attraverso una valanga di informazioni fornite da terzi (il narratore). E da scrittore e lettore, attraverso il comportamento di un personaggio mi è più facile capire i suoi stati interni. Emozioni basilari come gioia, paura, rabbia ecc., per esempio, hanno una tipica manifestazione somatica (per esempio, per ansia o paura, il sudore, i brividi, l'urgenza di mingere) o comportamentale (per esempio, per la rabbia, dare un calcio a qualcosa o sbattere un oggetto, ecc.). In questo senso, se l'autore sa mostrarlo non avrà bisogno di spiegarlo (un po' come le barzellette, se le spieghi non fanno più ridere).
    La cosa peggiore è quando la descrizione degli stati psicologici di un personaggio è qualcosa di inutile, fine a sé, che non ha alcun ruolo nel migliorarne lo spessore. No, ritengo che l'approfondimento psicologico non sia essenziale per una storia, anzi: talvolta è più utile non conoscere nulla di un personaggio (se è banale e insopportabile, per esempio) e approfondire le dinamiche della storia in sé.
  6. La storia che non va da nessuna parte
    Quando mi capita di raccontare agli amici dei fatterelli che mi sono successi, tendo a fare molti excursus, ahimè. Talvolta sono utili ai fini del fatterello, altre volte no. E quando faccio troppi giri, finisce che l'interesse cala e il fatterello in sé risulta poco interessante o non divertente.
    Quando però una persona scrive un romanzo ha un'idea. E la sviluppa. Senza andare alle unità aristoteliche, semplicemente è logico narrare eventi utili ai fini della storia o che in un modo o nell'altro ne muovono i fili.
    Per questo motivo non sopporto quei romanzi che ti prendono in giro per metà dell'opera. Non è questione di stile: ci sono romanzi in cui i personaggi vagano senza risolvere nulla, non evolvono personalmente né determinano un cambiamento degli eventi. È peggio che in un reality. Mi viene in mente Donne, di Bukowski. So che è un paragone azzardato, ma una componente negativa del romanzo, a mio avviso, è proprio questa. Chinaski mette in atto pattern di comportamento tali da rivivere situazioni simili, ancora, ancora e ancora, al punto che per una parte del romanzo si limita a raccontarli piuttosto che mostrarli (e ci mancherebbe). Il personaggio è figo, ci sono scene interessanti, ma a volte lo stile cala di qualità, come se il narratore fosse ubriaco e svogliato come l'autore, e ciò accoppiato a scene ripetitive, che sanno di déjà vu, va a sfavore dell'intera opera. Al contrario, in Post Office la storia riesce ad avere una linearità, nel bene o nel male, e riesce a risolversi in una conclusione (sebbene affrettata e approssimativa).
  7. Forme poetiche
    In genere gli autori sono distinguibili, per me, in due macrocategorie: quelli che si credono grandi artisti (incompresi) e hanno come scopo la grande Arte, e quelli che vogliono solo raccontare una storia e hanno come scopo la comunicazione di quest'ultima. I vari autori che leggo si pongono quindi su questo mio ipotetico continuum, a un'estremità ci sarebbero quelli che non voglio leggere, e all'altra quelli che desidero leggere a prescindere da ciò che raccontano, per il semplice fatto che la narrazione non è inquinata da bizzarre ideologie estetiche e mi permette di considerare ciò che vogliono narrare, qualsiasi sia il genere.
    Dato che la narrativa è prosa, e non poesia, lo scopo è quello di comunicare al meglio il messaggio narrativo, anche suscitando emozioni, ma sempre in maniera comprensibile a tutti. Per fare ciò può avvalersi di figure retoriche, certo, come fa anche la poesia. Ma la poesia non deve necessariamente essere comprensibile al lettore, o almeno, è suscettibile di molteplici significati (così almeno mi dicono dalla regia), al contrario della prosa, che si limita a raccontarti una serie di eventi nella maniera più efficace affinché il cervello di una persona possa mettere insieme gli elementi comunicativi per ricreare nella propria mente ciò che è partito dalla mente dell'autore.
    Di conseguenza, tutte le figure retoriche basate soprattutto sul suono e sull'evocazione di immagini di difficile rappresentazione per il lettore, comprensibili solo al poeta, nella prosa non hanno alcun senso. Allitterazioni, assonanze, sinestesie, difficilmente saranno utili alla comunicazione di un messaggio. Certo, in particolari situazioni possono fare al caso nostro, per esempio se un personaggio è in un trip da LSD e "assapora il suono di una chitarra", la sinestesia è inevitabile ma accurata. Diversamente, gli autori che usano figure retoriche a fini puramente estetici falliscono miseramente. Poco tempo fa cercavo di leggere Aurorarama, di Jean-Christophe Valtat: uno dei problemi del romanzo era il fastidioso e frequente ricorso ad allitterazioni per i nomi di luoghi, persone, ma anche a giochi fonetici, anagrammi e via discorrendo  ("Chasing the Chimera: Circumpolar Cryptozoology"; Neovenetian Nipi; Northern Noise; Angry Ananias Andrews; Clicquot Cub-Clubbers; Lillian Lenton; Mock Moons; Chione Canal; Boreal Bridge; the Earl of Real versus Stella Tesla). Non è arte, può essere un divertimento per l'autore o un gioco a sé, ma l'effetto che ho avuto mentre leggevo, era: "Oh no, eccone un'altra [allitterazione]. Ha smesso di essere figo a pag. 3, quando lo capirà?" e ancora: "Quando la smetterà di badare tanto alla forma e si preoccuperà di far muovere un po' la storia?"
  8. I prologhi
    Qui devo essere sincero: io ho sempre adorato la suddivisione di una storia in prologo, capitolo, epilogo, appendici ecc. Finché non ho imparato a distinguere ciò che è utile da ciò che è inutile, vale a dire quando è cambiata la mia percezione del tempo (si sa che più invecchi, più il tempo sembra scorrere in fretta). Questo non significa che ho cambiato priorità perché la mia vita sia diventata più frenetica e ricca di impegni e responsabilità (sebbene in effetti sia così), ma ho maturato una sufficiente consapevolezza utile a distinguere ciò in cui investire energie al fine di uno scopo, da ciò per cui non vale la pena perdere tempo.
    Ora, spesso in un romanzo il prologo ha un POV diverso rispetto a quello/i principale/i. Vale a dire, è un POV che compare solo nel prologo e talvolta nell'epilogo, tanto per dare il senso di chiusura. Il tempo e lo spazio in cui è ambientato il prologo spesso sono diversi rispetto al resto della storia.
    Cosa succede, allora?
    Succede che prima dell'inizio del romanzo, c'è un altro inizio che non ha nulla a che vedere con la storia principale (o almeno, non subito all'apertura). Quindi un lettore legge una mini-storia il più delle volte senza senso (l'aura di mistero necessaria secondo molti autori che ricorrono al prologo), senza continuità, e poi passa tutto d'un tratto a un'altra storia, il capitolo 1 (se si è fortunati: talvolta prima del prologo c'è il preambolo, così si ha "Preambolo" - "Prologo" - "Capitolo 1").
    Se non sbaglio fu il Duca a indicarmi, tantissimo tempo fa, che è meglio iniziare col primo capitolo e basta. Non può che avere ragione, ovviamente.
Gli orrori narrativi che mi fanno abbandonare un romanzo e perdere fiducia nel genere umano non sono solo questi otto, anzi, direi che questi otto non sono nemmeno i più rilevanti, per così dire. Ci sono anche  l'uso di aggettivi multipli, l'abuso degli avverbi, i verbi "disse" pompati di steroidi (cit. King, On writing), e via discorrendo. Però questo post l'ho preparato in un paio di settimane circa, annotandomi di tanto in tanto cosa mi fa incazzare quando leggo un romanzo, e ho cercato di scriverlo nel tempo libero.
Non prometto nulla, ma forse in futuro potrebbe scapparci qualche altra simile "top ten mancata".

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Note:
1. La citazione è tratta da questa mia vecchia impressione di Prometeo e la guerra di Alessandro Girola. Non è intenzionale: ricordavo di aver parlato della tecnica dello specchio ma non sapevo dove, così ho googlato "tecnica specchio taotor" e sono arrivato lì.