domenica 16 marzo 2014

Impressioni | The blade itself, di Joe Abercrombie

Abercrombie è stato accolto dalla maggior parte dei lettori (i.e. i blogger che seguo) con grande entusiasmo. Mi approcciai a leggerlo un paio di anni fa sull'Opus che però, non avendo i dizionari inclusi, mi fece desistere per rimandare la lettura a un secondo momento.¹
Questo momento ha tardato un po' ad arrivare, ma alla fine è arrivato.

The blade itself si sarebbe fatto spazio nella selva di robaccia fantasy grazie allo stile che ammicca a Martin conservando al contempo una sua originalità, grazie all'ambientazione meno hard-fantasy di Martin ma nemmeno lontanamente high-fantasy. Vantava un "ritorno" del fantasy sword-and-sorcery degli anni, per così dire, d'oro ('80-'90), ma con una veste stilisticamente migliore.
Le recensioni che ho letto mi hanno creato grandi aspettative (quella di Zwei e Ewan).
Eppure mi aspettavo di meglio, soprattutto dopo la parte iniziale che effettivamente prometteva un fantasy classico ripulito della narrazione dozzinale propria degli SnS a cui siamo abituati (mi riferisco alle avventure di D&D prese e trascritte in romanzetti illeggibili neanche col gusto del trash).
I motivi per cui The blade itself non mi ha convinto non sono tanti, ma sono sufficienti per mettere in dubbio una mia possibile prosecuzione con la trilogia.
Il primo motivo più importante riguarda la natura degli eventi narrati.
Per esempio, so che Glotka è un personaggio carismatico, sadico, divertente, molto amato. Ma il suo POV presenta complotti che coinvolgono un sistema sociale e politico che, per quanto di accessibile comprensione, non sorprende nei suoi temi - corruzione, intrighi, interessi economici. A voler fare un paragone, direi che la costruzione di intrighi politici/di corte è ben fatta in A song of ice and fire: gli eventi riguardano direttamente i personaggi, vengono ampiamente diluiti (e digeriti dal lettore) in un alto numero di pagine (e libri), e i colpi di scena che scatenano sono efficaci.
Glotka che si ritrova nelle lotte di potere tra caste o corporazioni non è interessante, soprattutto quando il 90% del romanzo parla di lui che indaga e scopre cose che non interessano al lettore. Lui è un personaggio interessante, il suo modo di comunicare è interessante, ma lui che fa il detective dell'ovvio non lo è affatto.
Jezal è il POV più noioso di tutti. Il conflitto che lo riguarda è pari a "cosa indosso stamattina?", e tutti gli eventi che lo riguardano sono inutili. Inoltre è il personaggio attraverso cui sembrano spiccare di più ipotetici problemi di Abercrombie con la figura paterna, se mai questi dovesse averne. Jezal non sa se cercare una sua identità o assecondare le aspettative paterne che però non vuole deludere (figura paterna odiata), Logen invece vive di citazioni del padre saggio (figura paterna idealizzata). O forse è tutto frutto del corso di Psicologia di Abercrombie.

 

Logen è il personaggio, a mio avviso, migliore. In un'opera che vuole essere tipicamente fantasy, Logen è il personaggio stereotipato che paradossalmente vive un conflitto significativo (ha perso la sua famiglia e i suoi compagni e si ritrova, sconfitto, a scappare da nemici che non è in grado di affrontare, abbandonando la sua terra), è il classico barbaro nordico tutto muscoli e cicatrici che, per confermare l'apoteosi del fantasy di Abercrombie, è anche in grado di parlare con gli spiriti (della serie "sì, voglio che la classe del mio personaggio sia quella del barbaro guerriero, ma se gli do anche qualche capacità magica lo rendo incredibilmente più figo").
Logen è, a mio avviso, l'unico personaggio che, pur incarnando uno stereotipo, dà senso e ritmo al romanzo.
Un altro motivo più marginale per cui The blade itself mi ha "deluso" - rispetto alle aspettative createmi dalle recensioni - consiste negli alti e bassi della narrazione.
Per quanto accettabile possa essere una storia, non è mai accettabile leggere:
The Susperior's office was a large and richly appointed room high up in the House of Questions, a room in which everything was too big and too fancy.
(...) An equally huge and ornate desk stood in the centre of a richly coloured carpet from somewhere warm and exotic.
Sono frasi che un narratore in terza persona non dovrebbe mai pronunciare, la banalità degli avverbi inutili e delle immagini vaghe spengono l'entusiasmo proprio come un pigiamone di pile spegne la libido.
Quando leggo un romanzo non posso fare a meno di leggerlo anche con gli occhi da scrittore: dopo diversi anni di impegno nello scrivere, nel leggere i "modelli" e imparare a fare meglio, si acquisisce lo sguardo clinico che pur non volendo individua gli errori o le scelte stilistiche infelici. È un po' come passare da un Tavernello a un Primitivo: tutti i vini peggiori non varrebbe la pena nemmeno annusarli, e quando li si assaggia non si può fare a meno di notarne la qualità pessima.
Allo stesso modo, quando leggo, il mio cervello elabora il testo in virtù della sua cablatura sulla buona scrittura appresa dai maestri della narrativa, dal buon senso, e soprattutto dalle bacchettate del Duca sulle nocche.
He let his mind settle on an animal (un animale? Che tipo di animale? Perché non specificarlo subito? Che immagino creo come lettore nella mia testa? Una gallina o un alce?) close to him, moving cautiously (avverbio: da eliminare del tutto o sostituire con una forma più chiara) through the woods to his right. Delicious. The forest grew silent but for the endless dripping of water from the branches. (fa schifo, è a metà tra bassa poesia e narrativa scarsa: chi ti ha insegnato a scrivere, Baricco?)
La cosa divertente è che molti "errori" che noto nei romanzi sono gli stessi che ho compiuto io mentre imparavo (o meglio, che compio ancora mentre imparo), e quello appena citato, sulla "foresta che cresce in silenzio", non è tanto diverso da quello che scrissi un po' di tempo fa (6 o 7 anni più o meno, ero ancora minorenne):
Il bosco viveva placido la propria vita, senza badare a lui. (Descrivi quel che vede in concreto, con dettagli che creino atmosfera, invece di raccontare ovvietà: è banale che la vita delle piante continui, che ci sia o meno lui, e la frase suona trita e ritrita)
Questo è tratto da un vecchio racconto che il Duca mi corresse, insegnandomi nozioni che, una volta apprese contestualmente all'errore commesso, ho assimilato e applico in automatico quando scrivo (e quando leggo).
Per chi fosse curioso, in questo post c'è un assaggio pratico di come è meglio scrivere (o non scrivere) un racconto, con le annotazioni del Duca.
In conclusione, The blade itself non si è rivelata la svolta del fantasy moderno che mi aspettavo, ma neppure merita il disprezzo del 90% delle opere fantasy in commercio e non solo. Sicuramente risolleva un po' la qualità media del genere, ma a mio avviso non si distingue più di tanto nella letteratura di genere, se non per la sua qualità grossomodo accettabile e non degna di infamia.
Posso solo sperare che le altre opere di Abercrombie siano migliori, dato che oltre alla trilogia di The First Law esistono altre opere stand-alone.

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¹ So che all'epoca esistevano già diversi lettori coi dizionari integrati, per esempio il Sony PRS-T, ma avevano comunque un certo costo; se penso che ora il Kindle 4 NT, completo praticamente di tutto tranne l'illuminazione e il touch [edit: come se Amazon avesse letto questo post, il Kindle base ora è anche touch], è a 59€, non posso che riflettere sui benefici del progresso e su come piccoli miglioramenti incrementino di molto la qualità di lettura.