lunedì 30 dicembre 2013

Impressioni | I racconti di un giovane medico, di Mikhail Bulgakov

racconti giovane medico mikhail bulgakov country doctor's notebook daniel radcliffe Bulgakov è un autore noto soprattutto per il classico Il Maestro e la margherita, o per il meno famoso La guardia bianca.
Non si direbbe anche autore di I racconti di un giovane medico, il cui stile è completamente diverso (in meglio).
Sono sette racconti indipendenti (ognuno può essere letto a sé, ma sono brevi e nell'insieme probabilmente non formano nemmeno una novellette), in cui si narrano episodi largamente ispirati alla reale esperienza di Bulgakov come medico del circondariato.
Dai racconti è stata tratta la breve serie tv con Daniel Radcliffe (grazie alla quale si toglie di dosso i panni di Harry Potter).
La differenza tra i racconti e la serie non è grande. Eccettuati alcuni elementi inseriti ex novo nella serie, come i personaggi inventati di proposito, la dipendenza da morfina del protagonista, o lo sfondo della rivoluzione coi bolscevichi ecc., le storie vengono trasposte fedelmente nella serie, e arricchite di aspetti comici che nei racconti non sono così accentuati.
Di fatto Bulgakov mostra (sia metaforicamente che stilisticamente) aspetti particolari del mestiere del medico nelle circostanze da lui descritte, con un focus particolare sui continui ripensamenti e rimorsi verso la professione suscitati da situazioni critiche.
Non si può non comprenderlo empaticamente quando mette in evidenza come la carriera universitaria, per quanto brillante, sia sostanzialmente inutile nel momento in cui le nozioni vanno messe in pratica (da qui il panico verso l'ernia strozzata o il parto).
Non mancano i momenti drammatici, che nel complesso si può dire compongano una specie di brevissimo romanzo di formazione (il protagonista, perlomeno, cresce proprio attraverso i racconti narrati).
Lo stile è veloce e asciutto, a tratti anche fin troppo, ma la lettura che ne risulta è gradevolissima, e i racconti si sviluppano in uno spazio ristretto che però è più che sufficiente per ospitare le storie (niente fronzoli o riempimenti a cui siamo abituati).
A mio avviso, è la migliore opera di Bulgakov.

martedì 10 dicembre 2013

Impressioni | La sfida della tigre, di Bernard Cornwell

Quand'ero più giovane, più o meno all'età delle medie, ero un grande appassionato di Tolkien, Medioevo, ciclo arturiano e tutto quel genere di roba. Tra un Jack Whyte e una Marion Zimmer Bradley, lessi qualcosa del ciclo arturiano di Cornwell e rimasi affascinato dalla narrazione più "sporca" e bruta rispetto al medioevo simil-cavalleresco a cui ero abituato. Ma ero molto giovane e non avevo ancora abbastanza esperienza per capire che, in realtà, Cornwell era solo una campana narrativa - passatemi il termine -, non migliore né peggiore di altri.
A dieci anni di distanza, mi è venuta voglia di rispolverare quella passione verso il medioevo, ho cercato qualche titolo su Amazon attraverso il Kindle, e ho scoperto che l'attività di Cornwell era più estesa in romanzi storici di ambientazione '700-'800esca piuttosto che medievale.
Così ho scoperto che l'opera magna di Cornwell è la saga di Sharpe, una serie di romanzi "a puntate" - molto simile allo stile serial, ma ora ci arriviamo -, non necessariamente collegate le une con le altre, ambientate agli inizi dell'800.

La sfida della tigre (Sharpe's tiger) è la prima opera della saga, e ha luogo in India, durante l'assedio di Seringapatam del 1799.
L'impressione generale che ne ho avuto è quella di uno stile abbastanza pulp: il protagonista, Sharpe, è un soldato semplice senza nulla da perdere, un ignorantello, ma forte e spaccone, con dei tratti da Gary Stu.
Il narratore di Cornwell non si risparmia con l'infodump, né coi POV: ne attribuisce un po' a tutti. Le informazioni sulle armi o sul background di alcuni personaggi arrivano quando servono, senza complimenti, e con la stessa leggerezza vengono anche svelati i pensieri e le intenzioni.
I dialoghi e la caratterizzazione dei personaggi sono abbastanza buoni, e lo sviluppo della storia procede. A tratti è prevedibile, a tratti lascia qualche sorpresa. Nel complesso però è lineare e senza infamia né lode, niente grandi colpi di scena o momenti memorabili.
Di per sé la storia è godibile se si apprezza il periodo storico dal punto di vista bellico, più che socio-politico: in questa cornice lo stile pulp (che non ho idea se sia voluto o no) diventa anche divertente, ma difficilmente lo consiglierei come "romanzo storico" al lettore medio. È più un misto tra historical fiction, guerra e avventura. Ciononostante, a mio avviso si pone al di sopra di un qualsiasi Manfredi: il ritmo di Bernard Cornwell (dialoghi frequenti e capoversi abbastanza smilzi) è migliore di quello di Valerio Massimo Manfredi (wall of text dall'inizio alla fine del romanzo), e sebbene entrambi abusino di infodump, in Cornwell di fatto è meno frequente e soprattutto subordinato a possibili richieste di ordine narrativo e, diciamocelo, un po' fan service (le strategie di guerra, per esempio), mentre in Manfredi nella maggior parte delle volte è infodump gratuito su larga scala, spesso un tell che ingloba scene facilmente o preferibilmente mostrabili, farcito di informazioni su fatti storici non indispensabili per la trama in sé.

E ora veniamo alla parte più succulenta.
Magari lo sapevano tutti tranne me, ma quando l'ho scoperto la cosa mi ha reso molto amused.
Dalla serie di romanzi di Cornwell è stata tratta, guarda caso, una serie tv. Ora, purtroppo non ho trovato informazioni su come sia nata l'idea della serie, né conosco i dettagli cronologici, ad ogni modo le prime pubblicazioni della serie di Sharpe risalgono all'81, e la serie è andata in onda a partire dal' '93: secondo Wikipedia, l'editore accordò a Cornwell la pubblicazione di tre libri su Sharpe (da lì poi la serie ha avuto successo). Di conseguenza, è possibile affermare che non c'era ancora alcun accordo relativo alla produzione di una serie tv. Mi piacerebbe pensare che lo stile adottato da Cornwell sia stato volutamente "trash" (più in senso "orientato al pubblico" che "di scarsa qualità": nel primo caso un'opera può prostituirsi al volere del pubblico e ciononostante o in virtù di ciò essere un capolavoro), al punto da renderlo appetibile, manco a farlo apposta, alla tv.
Le puntate della serie sono disponibili su Youtube (già sottotitolate in inglese), ma sicuramente in giro ci saranno i torrent, per chi preferisce averle.
sean bean sharpe's rifle cornwellLa cosa che mi esalta è che è una serie del '93, con tutto ciò che ne deriva, e il protagonista è nientepopodimeno che un trentenne Sean Bean! Gli elementi '90s sono una cosa bellissima per chi come me è proprio del 1990 e assiste per esempio a scene di eroismo rimarcate da assoli di chitarra elettrica distorta.
Non so dire se la serie meriti o no, ho visto i primi venti minuti della prima puntata e mi ricorda tanto Zorro.
Ad ogni modo, forse questa è l'unica serie in cui Sean Bean non muore.
Forse.

venerdì 29 novembre 2013

Due parole non richieste sulle opportunità della pubblicità nella narrativa digitale

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Ovviamente son tutte balle. Nessuna industria del tabacco mi ha (ancora) pagato per ospitare annunci pubblicitari sul blog. In Italia, oltretutto, la propaganda di tabacchi lavorati è anche vietata da qualche decennio. Ma il punto è: quanto è bella questa locandina pubblicitaria? Mettendo da parte il tabacco, quanto può infastidire l'immagine pittoresca di un uomo solitario, accampato con un fuocherello vicino a una piramide, che si accende una Camel mentre il sole tramonta dietro la duna?
Alcuni anni fa ho avuto l'opportunità di sfogliare alcuni linus, in particolare i numeri che andavano dagli anni '70 agli anni '90. Sono rimasto affascinato dalle pubblicità, come per esempio quella delle calcolatrici Texas Instruments, della Fiat Panda adatta ai giovani (e in aggiunta gli slogan sulla sua bellezza, letti vent'anni dopo, sono ridicoli), e delle sigarette Camel.
Purtroppo su Google non sono riuscito a trovare quella che mi è piaciuta più di tutte: un presunto esploratore (come quello qui sopra), sdraiato su un'amaca annodata a due alberi in un paesaggio esotico, che con una mano regge un libro e con l'altra si spippetta una Camel.
Vuoi per il gusto vintage, vuoi per il fascino esotico, a mio avviso quella pubblicità era una piccola opera d'arte, impreziosita dal tempo e chi lo sa, probabilmente ha impreziosito, di rimando, anche la rivista che la ospitava.
A prescindere dalle ovvie questioni di salute (fumare fa male), una pubblicità come la suddetta è esteticamente bella, persuasiva nei giusti limiti, e soprattutto permette alla rivista di esistere. Oltretutto la stessa Camel, che dapprima spacciava il suo marchio come il preferito dai medici, dopo l'ignoranza degli anni '40-'50 ha aggiunto quella piccola scritta relativamente al danno del fumo. Sebbene siano caratteri minuscoli, si tratta pur sempre di coerenza e rispetto, al contrario per esempio di pubblicità che affermando che "la cellulite è una malattia" vogliono venderti il loro prodotto inutile, o che quando ti lavi i denti le gengive ti sanguinano e hai bisogno necessariamente del loro dentifricio: questo è terrorismo psicologico basato sulle credenze false delle persone (suggestionabili).
La Psicologia Sociale insegna che per i prodotti di uso pratico, le pubblicità si concentrano sugli aspetti di efficienza e qualità del prodotto, mentre per quei prodotti che essenzialmente non servono a nulla (un profumo, o un whiskey), ci si concentra su fattori di desiderabilità sociale (basandosi sul fatto che persone con alto automonitoraggio, cioè con la tendenza a cambiare a seconda delle richieste dell'ambiente sociale, sono più suscettibili ai tipi di messaggio che riguardano per esempio lo status).
Chiedo scusa per la lunga premessa, ma mi sembrava necessaria per discriminare le pubblicità per così dire "oneste" da quelle "disoneste" (terrorismo psicologico).
Il discorso dell'utilità delle pubblicità l'ho già affrontato con altre persone su vari blog. A mio avviso la pubblicità è un'arma poco sfruttata che farebbe guadagnare tutti.
Per vendere i loro prodotti, le aziende hanno bisogno prima di tutto che la gente li conosca, e per fare ciò hanno bisogno di un mezzo per comunicare che il prodotto (o il servizio) X è in vendita ed è migliore di altri.
Basti pensare alle serie tv (americane, almeno): escludendo i finanziamenti del network o i ricavi per gadget e surrogati, una buona parte del guadagno deriva dallo spazio venduto alla pubblicità (gli ad). Cioè le aziende pagano per piazzare 15-30-60 secondi di spot poco prima della puntata, nel mezzo, o dopo.
Pensiamo alla pubblicità cartacea lasciataci nella cassetta della posta. Non so voi ma da me arrivano certi libretti di carta plastificata, con fotografie a colori vividi di poltrone e arredo: essenzialmente spazzatura di alta qualità. Ma fa ridere pensare poi che un paperback (carta scarsa, completamente bianco e nero) venga a costare 10€.

Ora, io non me ne intendo di marketing, ma appare abbastanza chiaro che la pubblicità si può sfruttare in molti modi per diversi fini, anche quelli quasi filantropici.
Tempo fa pensai: e se i romanzi venissero pubblicati con inserti pubblicitari all'interno? Il libro cartaceo potrebbe venire a costare meno (mi riferisco ai paperback, non alle edizioni da collezione). E sarebbe grandioso se si potesse fare una cosa simile anche con testi didattici, così da poterli rendere economicamente accessibili a tutti.
Alcuni siti piuttosto frequentati ospitano banner che, grazie alla popolarità del sito, possono ricevere un po' di visibilità (e, presumibilmente, incrementare le vendite). Non sarebbe possibile fare una cosa simile con gli ebook? Piuttosto che vendere un romanzo particolarmente popolare sarebbe bello poterne vendere la popolarità stessa: ebook gratuiti in cambio di inserzioni pubblicitarie.
Non mi sembrerebbe così assurdo se in un ebook dovesse esserci la pubblicità - mettiamo - dell'ultimo eReader di Amazon o di Kobo. Considerando che tanti lettori, come me, cercano informazioni sugli ultimi eReader, la pubblicità del nuovo modello Vattelapesca dell'azienda Taldeitali all'inizio di un capitolo non mi darebbe fastidio, anzi: se caratteristiche e prezzo dovessero soddisfarmi, me lo comprerei. E perché no, come già è stato fatto con Kobo, non sarebbe una tragedia avere un eReader più economico in cambio di piccoli banner pubblicitari nella home (a condizioni accettabili).
Se io fossi un'azienda di qualche tipo, valuterei la possibilità di, per esempio, "finanziare" uno scrittore che va forte perché scriva un'opera che la mia stessa azienda provvederebbe a distribuire gratis col mio marchio sopra. Ci guadagnerebbe lo scrittore (probabilmente non uno Stephen King che guadagna sicuramente di più pubblicando dal nulla quello che gli viene in mente mentre fa la spesa), sia in denaro che in maggiore visibilità, sia la mia azienda, che sfruttando un mezzo (la narrativa) potrebbe allargare la fetta di acquirenti.
O perché no, potrebbe essere la stessa azienda che, grazie alla propria popolarità, potrebbe distribuire con un maggiore impatto un romanzo, un certo numero di autori, un genere, una casa editrice indipendente che però pubblica opere meritevoli ecc. Se domani dovesse nascere l'equivalente dell'Eraserhead Press ma con un altro nuovo genere mind-blowing, e se l'alta qualità delle opere non dovesse bastare a renderla famosa, un qualche tipo di sponsor potrebbe, in qualche maniera, tornare utile a farla emergere, o no?
Oppure prendiamo Steam: una piattaforma per ebook (e perché no, anche macro-aggregatrice di altre piattaforme), piuttosto che per videogiochi, sarebbe possibile? Gioverebbe? Farebbe emergere capolavori inaspettati? Molti giochi indipendenti con Steam sono saltati all'occhio e hanno avuto successo (con gran piacere di migliaia di gamer).
Personalmente, troverei grandioso se qualcuno si mettesse a distribuire gratuitamente "episodi" narrativi, avvincenti, di una qualche storia (fantasy, horror, storica, quello che vi pare), il tutto supportato da sponsor pubblicitari, allo stesso modo delle serie tv. Così che quando torni a casa, quel giorno della settimana, invece di mettere a scaricare l'episodio della sitcom preferita, scarichi una puntata "narrativa", il cui andamento potrebbe essere influenzato dall'impatto degli ascolti. Sì, i ritmi di lettura sono diversi da quelli degli spettacoli tv, ma sono convinto che la cosa sia possibile, e non solo: riuscire a scrivere capitoli leggibili per esempio in 30 minuti, che riescano veramente a intrattenere, a sviluppare un climax, che contengano un forte hook e un cliffhanger mangiaunghie, significherebbe essere scrittori davvero abili.

Insomma, non parlo di nulla di nuovo. Mi rendo conto che il discorso non sia originale e che di fatto esistono interi staff di persone qualificate e strapagate per avere idee simili e sicuramente migliori, ma mi rendo anche conto che non ho mai visto iniziative che abbiano veramente provato a dare una svolta in questo senso - nell'ambito dei romanzi/ebook.
Certo, mettere a confronto un pubblico di gamer con uno di lettori è assurdo, e lo stesso vale per film, serie tv o musica. Immagino che si facciano meno soldi con la narrativa. Ma è anche vero che le cose stanno cambiando: se i lettori non fossero così tanti, non ci avrebbero nemmeno pensato a inventare gli eReader e tutto il resto, eppure è successo, e i dati delle vendite fanno ben pensare.
Evidentemente modi nuovi di fare le cose o vivere esperienze ha portato a una più diffusa fruibilità di materiale che prima non godeva della notorietà di cui gode ora.
Ok, forse sto delirando, ma magari c'è qualcuno là fuori che leggerà questo post e che vi troverà spunti utili per poter arricchire l'esperienza della lettura di intrattenimento.

venerdì 15 novembre 2013

Impressioni | Player Piano, di Kurt Vonnegut

kurt vonnegut player piano piano meccanico recensioneNon ho la più pallida idea di come sia finito a leggere Vonnegut, forse perché era nella lista di autori da cui poter apprendere qualcosa, non ricordo. So solo che pensavo di andare a leggere un classico della fantascienza, una distopia con speculazioni sulla società e via discorrendo, ma mi sono ritrovato (con mio grande piacere) con un interessante sci-fi (soft) piuttosto dieselpunk.

In sostanza Piano meccanico narra del dilemma etico del protagonista, Paul Proteus, capo dell'industria di Ilium, New York, immerso nel sistema efficiente basato sul know-how che domina la società americana in seguito a una ipotetica III Guerra Mondiale (da cui ovviamente l'America esce vittoriosa). Il sistema a cui ogni cittadino è costretto a sottostare è basato su una differenziazione degli individui in base al loro Q.I ¹ e, di conseguenza, in base ai ruoli che il proprio intelletto permette di rivestire (con una velata ghettizzazione tra dirigenti e ingegneri da un lato della città e, al di là del fiume, gli operai e tutti gli altri). Ma Paul Proteus avverte la dissonanza che il sistema gli provoca e così anche i cittadini, e ciò porterà lui e la popolazione ad agire di conseguenza.

La prosa di Vonnegut è semplice e chiara.
Non mi esprimo sulla storia in sé: sono sempre del parere che stile e idee vengano prima, e in questo caso non ho granché da aggiungere sulla storia.
Vonnegut sa essere geniale in maniera semplice, e al contempo è in grado di cadere in trovate narrative approssimative e naive.
Il suo genio, a mio avviso, sta in piccolezze quali l'inserimento di dettagli realistici fini a sé, che rendono la narrazione credibile:
L'uomo scarabocchiò qualcosa su un pezzo di carta. Teneva il foglietto sul cofano, e per due volte buco la carta con la matita passando sopra a una scalfittura. «Ecco, qui c'è il mio nome. Se ha della macchine, io sono il tipo adatto a farle andare (...)»
Le cadute di stile sono, per capirci, gli errori grossolani, la narrazione in lingua scrittorese. In questi casi Vonnegut entra nel pericoloso territorio degli 8 orrori narrativi che mi fanno abbandonare un romanzo e perdere fiducia nel genere umano™:
Un giovane di bassa statura vestito normalmente, con grandi occhi infinitamente saggi, si appoggiò contro il tavolo del separé di Paul e di Ed, guardando la televisione con una particolare attenzione. Si volse verso Paul con aria sbadata. «Che cosa crede che stia suonando?»
"Grandi occhi infinitamente saggi."
A parte questo, Vonnegut cade spesso anche nell'infodump secondo lo schema: ingresso del personaggio - descrizione background del personaggio - definizione delle sue dinamiche interne, della sua personalità, dei suoi obiettivi. Nel migliore dei casi l'infodump si riduce a riassunti ricchi di informazioni che però dipingono in fretta, nella maniera più breve e completa, situazioni già avvenute che è necessario il lettore conosca.
Ma il genio (opinione criticabile, me ne rendo conto) di Vonnegut si può ammirare nel modo in cui cambia registro narrativo a seconda delle esigenze della storia.
Tralasciando il flusso di coscienza di joyceiana memoria, attribuito a un personaggio minore (ha un solo paragrafo-POV, se non ricordo male), un soldato semplice, che è stato divertentissimo leggere, a un certo punto della storia c'è una rappresentazione teatrale, e in che maniera la mostra Vonnegut? Ma è ovvio, con la struttura di un copione:
JOHN. (Fischia sottovoce) Non c'è dubbio! (Indica all'improvviso il contestatore, che appare molto irrequieto.) Ma lui ha detto...
GIOVANE INGEGNERE. Abbiamo risposto a tutto ciò che ha detto John. E vorrei aggiungere una piccola riflessione.
Questo ovviamente era solo un estratto esemplificativo.

Tra una trovata stilistica geniale e una scelta narrativa ingenua, Player Piano riesce ad arrivare con forza alla mente del lettore, con la sua ambientazione, i suoi personaggi, con l'ideologia del sistema sociale ecc. Sebbene si possa dire che rappresenti il classico romanzo di critica sociale che tipicamente "invita il lettore a riflettere" (il genere di roba che gli insegnanti ruba-stipendio del liceo ti spacciano per opere d'arte irraggiungibili), Player Piano è, a mio avviso, un godibilissimo gioco di what if che, speculazione sociologica a parte, offre un'ambientazione dieselpunk suggestiva e assai credibile: si può dire che, a differenza di molti autori di fantascienza, Vonnegut abbia profetizzato con accuratezza gran parte dello stile di vita moderno.

_____
Note:
¹ - Se Vonnegut avesse scritto il romanzo qualche decennio più tardi, probabilmente il ragionamento di fondo sarebbe stato diverso, e la società da lui immaginata non si sarebbe basata così tanto sul Q.I. Nonostante il "miglioramento" della scala Stanford-Binet (1916) con la più moderna WAIS di Wechsler, a oggi arrivata alla IV edizione, la concettualizzazione di quoziente intellettivo in un certo senso lascia il tempo che trova. Sono state scoperte nel tempo altre "intelligenze" che le scale classiche fino a quel momento avevano trascurato, e in generale la Psicologia Cognitiva e la Psicologia Clinica (insieme alla Psicometria) hanno negli anni dimostrato quanto l'individuo sia complesso e contraddittorio: se può sembrare scontato a noi di questo secolo, non era proprio così tra la fine dell'800 e gli inizi del '900, periodo in cui ci si affidava addirittura alla Frenologia o ad altre convinzioni non-scientifiche.
Ad ogni modo, proprio in virtù degli esigui studi in materia all'epoca, nonché dello scetticismo verso tali argomenti, affrontati da una disciplina troppo giovane qual era la Psicologia, non è un caso che l'idea di fondo del romanzo sia praticamente un'esasperazione per poter speculare un po' sul what if di base. La costruzione di un sistema in base ai contributi scientifici un'utopia: nessun governo è mai stato fondato sui risultati delle ricerche scientifiche al fine del miglioramento della società, delle leggi e delle istituzioni; basti vedere come il nostro stesso paese sia, nella gestione, anti-scientifico, illogico, tutto l'opposto della distopia di Vonnegut: in Italia sono gli analfabeti e coloro che hanno un QI basso ad essere al potere.

giovedì 7 novembre 2013

8 orrori narrativi che mi fanno abbandonare un romanzo e perdere fiducia nel genere umano

Chi ha letto qualche mia impressione fulminante sa che mi rompo facilmente a leggere un romanzo, se ci sono aspetti che denotano scarsezza. Il tempo è denaro, ma la cosa più importante è che paradossalmente per perdere tempo una persona si ritrova anche a dover pagare, e questo è ovviamente il caso dei romanzi scarsi.
Per dissonanza cognitiva, però, può capitare che l'atto di aver speso del denaro per quel romanzo convince una persona a proseguire la lettura e dare un senso al comportamento precedente. Un conto però è spendere 20€ per un libro a copertina rigida, un altro è spenderne 1 per un ebook (anche se di questi tempi è più probabile spendere 7-10€ per un ebook, e ciò è vergognoso, quindi tanto vale piratarlo - poi però, se l'opera merita, un po' di buona pubblicità non può che far bene, se non si vuol comprare il romanzo in originale).
Veniamo a noi.
Questi punti non rappresentano lezioni di scrittura, sebbene alcuni li abbia sviluppati proprio in virtù di qualche manuale o in seguito alle bacchettate del Duca sulle nocche, ma rappresentano principalmente riflessioni personali su come alcune scelte narrative siano così scarse da spingere a eliminare il nome dell'autore dal cervello.


  1. Il meteo
    È tipico degli autori scarsi. Anche Palahniuk sconsigliava di raccontare le condizioni del tempo in una storia (se non ricordo male in La scimmia pensa, la scimmia fa), ma, grazie comunque Chuck, la cosa è palese. Se non è necessario, meglio non scriverlo, e se mi capita di leggerlo, per me l'autore parte già con un occhio di biasimo da parte mia. Non che non si possa dire se piove o se c'è il sole, ma mettiamo che il romanzo ti si apra con:

    Capitolo 1

    Il sole brillava tra stralci di nubi di un cielo autunnale. Soffiava una leggera brezza, non troppo fredda, invernale, né calda come l'estate che era ormai trascorsa. Un vento frizzante che...

    In un vecchio post raccontavo le mie abitudini di lettura in bagno. Per mancanza di tempo durante la giornata, è più probabile che io inizi lì un romanzo, e avrò a disposizione pochi minuti, il tempo di fare tutto (ALLERTA: contenuti ad alto tasso di Intellettualità). Se in quei pochi minuti leggo una cosa simile a quella che ho abbozzato sopra, proseguirò di qualche altra pagina per accertarmi che il romanzo sia da buttare, per poi eliminarlo definitivamente e far spazio sul Kindle.
    Questo genere di aperture è tipico dei film. Si possono leggere sceneggiature che cominciano in questa maniera, con un'esterna e uno scorcio sul tempo. La descrizione del clima nella prosa occupa un certo tempo (minuti), mentre in un film pochi secondi.
    Ad ogni modo parlare del tempo, specie in apertura, fa piuttosto pena, e mi fa pensare allo scrittore-poser col bicchierone di Starbucks e il MacBook, che di scrittura non ne sa niente ma gli piace solo credersi scrittore perché fa figo.




  2. L'infodump ingenuo
    L'infodump è brutto più o meno sempre, ma ci sono casi in cui se lo leggo chiudo un occhio, per esempio quando in un romanzo non ce ne sono tanti, o se sono brevi e indolore, o se magari sono lo spirito del romanzo stesso (per esempio, attraverso una narrazione in prima persona in una storia sci-fi o che fa delle idee il suo punto forte). Per esempio, in Terry Pratchett o Douglas Adams l'infodump fa parte dello "scherzo", del tono comico, ma allo stesso tempo dipinge l'ambientazione, e se dovessi toglierlo se ne andrebbe anche una buona parte della potenza narrativa.
    Tuttavia ci sono romanzi in cui l'infodump scorre davvero potente. L'impressione che ne deriva, per me, è sempre quella dello scrittore Starbucks+MacBook, che arriva alla presentazione del personaggio, magari al ritratto (vedi punto 3), e snocciola informazioni sul suo background, lì per lì. Della serie: "non ho idea di quello che dico, sto inventando sul momento, e mentre creo ti rigurgito addosso tutte queste informazioni in modo che, allo stesso tempo, io possa riflettere e capire come posizionarle all'interno della storia, perché sono troppo pigro e non ho abbastanza esperienza per organizzare prima, e narrare con coerenza dopo."
    Personalmente tendo ad avere due file, nella cartella di un racconto lungo: uno è il file della storia in sé, l'altro è un file in cui riporto tutti i dettagli che io devo sapere, affinché possano cementificarsi nella mia mente, adattarsi ai personaggi, all'ambientazione, e dislocarsi nell'ordine degli eventi (quest'ultima cosa è più difficile, per me, e tende a cambiare nel corso della narrazione).
    Un autore che sputa infodump può essere o un autore che sta inventando la storia lì per lì, o un autore che ha già organizzato a parte tutte le informazioni, ma si è dimenticato o non ha voluto eliminarle dal testo definitivo. Per questo merita il mio biasimo.
  3. La tecnica dello specchio
    O meglio la Tecnica del ritratto allo specchio (detta così pare Kill Bill e la tecnica dell'esplosione del cuore con cinque colpi delle dita), è quella scorciatoia pessima in cui il narratore descrive l'aspetto fisico (e nei casi peggiori anche psicologico/temperamentale ecc.) del personaggio evitando la voce onnisciente, per rifugiarsi nel "pretesto" del POV: il pg si guarda nello specchio ed è come se si vedesse per la prima volta, cioè riporta tutti i dettagli sul suo aspetto e abbigliamento.
    Questa tecnica la odio perché è come un trope da film horror, "il nero muore per primo". Un esempio:

    "Prima di uscire si concesse un’ultima occhiata allo specchio. Di media statura, con capelli corti, castano scuro, che avevano un principio di stempiatura. Per il resto Raddavero era però piuttosto giovanile, senza una ruga e con una barbetta sottilissima che curava di giorno in giorno." ¹

    In pratica è l'equivalente narrativo dell'attore di un film che rompe il quarto muro e fa l'occhiolino agli spettatori (rottura del quarto muro intesa non come intenzionale alla Woody Allen).
    È una cosa che odio perché mi fa pensare che l'autore: 1) non abbia mai letto storie in cui si ricorre a questo cliché, così da poter evitarlo, 2) sappia benissimo che è una tecnica abusata ma ritiene che sia Alta Scrittura.
  4. Le descrizioni minute
    È quando hai voglia di morire ogni volta che un personaggio entra in scena, perché l'autore si esalta nel descriverne l'aspetto e soprattutto l'abbigliamento. Palahniuk consiglia addirittura di non descrivere che aspetto abbiano i personaggi, e non ha tutti i torti. La maggior parte delle volte è più che sufficiente descrivere un personaggio con pennellate grossolane, se utile ai fini della storia magari ci si può soffermare su alcuni particolari.
    Dato che questo vizio generalmente è associato ad altre scelte stilistiche pessime, do l'ultimatum a un romanzo non appena mi si presentano scene da sfilata. Per esempio, in Leviathan Rising di Jonathan Green c'è questa pessima tendenza a descrivere l'abbigliamento dei personaggi, il make up e l'acconciatura delle donne (un autore quando insiste sul descrivere la maniera in cui cadono dei boccoli dovrebbe capire che è il momento di smetterla), e via discorrendo. Proprio questo (insieme all'infodump della peggior specie) mi ha spinto a chiudere il romanzo.
  5. I sentimenti esacerbati
    Non è tanto lontano dal concetto di Show, don't tell: alcuni autori tendono a esprimere lo stato d'animo dei personaggi attraverso una lunga descrizione dei sentimenti, veri e propri wall of text.
    Non funziona.
    Da psicologo clinico in formazione posso affermare che è più facile comprendere, dal di fuori (i.e. leggendo) i sentimenti, le aspettative, le credenze di una persona attraverso il dialogo diretto, piuttosto che attraverso una valanga di informazioni fornite da terzi (il narratore). E da scrittore e lettore, attraverso il comportamento di un personaggio mi è più facile capire i suoi stati interni. Emozioni basilari come gioia, paura, rabbia ecc., per esempio, hanno una tipica manifestazione somatica (per esempio, per ansia o paura, il sudore, i brividi, l'urgenza di mingere) o comportamentale (per esempio, per la rabbia, dare un calcio a qualcosa o sbattere un oggetto, ecc.). In questo senso, se l'autore sa mostrarlo non avrà bisogno di spiegarlo (un po' come le barzellette, se le spieghi non fanno più ridere).
    La cosa peggiore è quando la descrizione degli stati psicologici di un personaggio è qualcosa di inutile, fine a sé, che non ha alcun ruolo nel migliorarne lo spessore. No, ritengo che l'approfondimento psicologico non sia essenziale per una storia, anzi: talvolta è più utile non conoscere nulla di un personaggio (se è banale e insopportabile, per esempio) e approfondire le dinamiche della storia in sé.
  6. La storia che non va da nessuna parte
    Quando mi capita di raccontare agli amici dei fatterelli che mi sono successi, tendo a fare molti excursus, ahimè. Talvolta sono utili ai fini del fatterello, altre volte no. E quando faccio troppi giri, finisce che l'interesse cala e il fatterello in sé risulta poco interessante o non divertente.
    Quando però una persona scrive un romanzo ha un'idea. E la sviluppa. Senza andare alle unità aristoteliche, semplicemente è logico narrare eventi utili ai fini della storia o che in un modo o nell'altro ne muovono i fili.
    Per questo motivo non sopporto quei romanzi che ti prendono in giro per metà dell'opera. Non è questione di stile: ci sono romanzi in cui i personaggi vagano senza risolvere nulla, non evolvono personalmente né determinano un cambiamento degli eventi. È peggio che in un reality. Mi viene in mente Donne, di Bukowski. So che è un paragone azzardato, ma una componente negativa del romanzo, a mio avviso, è proprio questa. Chinaski mette in atto pattern di comportamento tali da rivivere situazioni simili, ancora, ancora e ancora, al punto che per una parte del romanzo si limita a raccontarli piuttosto che mostrarli (e ci mancherebbe). Il personaggio è figo, ci sono scene interessanti, ma a volte lo stile cala di qualità, come se il narratore fosse ubriaco e svogliato come l'autore, e ciò accoppiato a scene ripetitive, che sanno di déjà vu, va a sfavore dell'intera opera. Al contrario, in Post Office la storia riesce ad avere una linearità, nel bene o nel male, e riesce a risolversi in una conclusione (sebbene affrettata e approssimativa).
  7. Forme poetiche
    In genere gli autori sono distinguibili, per me, in due macrocategorie: quelli che si credono grandi artisti (incompresi) e hanno come scopo la grande Arte, e quelli che vogliono solo raccontare una storia e hanno come scopo la comunicazione di quest'ultima. I vari autori che leggo si pongono quindi su questo mio ipotetico continuum, a un'estremità ci sarebbero quelli che non voglio leggere, e all'altra quelli che desidero leggere a prescindere da ciò che raccontano, per il semplice fatto che la narrazione non è inquinata da bizzarre ideologie estetiche e mi permette di considerare ciò che vogliono narrare, qualsiasi sia il genere.
    Dato che la narrativa è prosa, e non poesia, lo scopo è quello di comunicare al meglio il messaggio narrativo, anche suscitando emozioni, ma sempre in maniera comprensibile a tutti. Per fare ciò può avvalersi di figure retoriche, certo, come fa anche la poesia. Ma la poesia non deve necessariamente essere comprensibile al lettore, o almeno, è suscettibile di molteplici significati (così almeno mi dicono dalla regia), al contrario della prosa, che si limita a raccontarti una serie di eventi nella maniera più efficace affinché il cervello di una persona possa mettere insieme gli elementi comunicativi per ricreare nella propria mente ciò che è partito dalla mente dell'autore.
    Di conseguenza, tutte le figure retoriche basate soprattutto sul suono e sull'evocazione di immagini di difficile rappresentazione per il lettore, comprensibili solo al poeta, nella prosa non hanno alcun senso. Allitterazioni, assonanze, sinestesie, difficilmente saranno utili alla comunicazione di un messaggio. Certo, in particolari situazioni possono fare al caso nostro, per esempio se un personaggio è in un trip da LSD e "assapora il suono di una chitarra", la sinestesia è inevitabile ma accurata. Diversamente, gli autori che usano figure retoriche a fini puramente estetici falliscono miseramente. Poco tempo fa cercavo di leggere Aurorarama, di Jean-Christophe Valtat: uno dei problemi del romanzo era il fastidioso e frequente ricorso ad allitterazioni per i nomi di luoghi, persone, ma anche a giochi fonetici, anagrammi e via discorrendo  ("Chasing the Chimera: Circumpolar Cryptozoology"; Neovenetian Nipi; Northern Noise; Angry Ananias Andrews; Clicquot Cub-Clubbers; Lillian Lenton; Mock Moons; Chione Canal; Boreal Bridge; the Earl of Real versus Stella Tesla). Non è arte, può essere un divertimento per l'autore o un gioco a sé, ma l'effetto che ho avuto mentre leggevo, era: "Oh no, eccone un'altra [allitterazione]. Ha smesso di essere figo a pag. 3, quando lo capirà?" e ancora: "Quando la smetterà di badare tanto alla forma e si preoccuperà di far muovere un po' la storia?"
  8. I prologhi
    Qui devo essere sincero: io ho sempre adorato la suddivisione di una storia in prologo, capitolo, epilogo, appendici ecc. Finché non ho imparato a distinguere ciò che è utile da ciò che è inutile, vale a dire quando è cambiata la mia percezione del tempo (si sa che più invecchi, più il tempo sembra scorrere in fretta). Questo non significa che ho cambiato priorità perché la mia vita sia diventata più frenetica e ricca di impegni e responsabilità (sebbene in effetti sia così), ma ho maturato una sufficiente consapevolezza utile a distinguere ciò in cui investire energie al fine di uno scopo, da ciò per cui non vale la pena perdere tempo.
    Ora, spesso in un romanzo il prologo ha un POV diverso rispetto a quello/i principale/i. Vale a dire, è un POV che compare solo nel prologo e talvolta nell'epilogo, tanto per dare il senso di chiusura. Il tempo e lo spazio in cui è ambientato il prologo spesso sono diversi rispetto al resto della storia.
    Cosa succede, allora?
    Succede che prima dell'inizio del romanzo, c'è un altro inizio che non ha nulla a che vedere con la storia principale (o almeno, non subito all'apertura). Quindi un lettore legge una mini-storia il più delle volte senza senso (l'aura di mistero necessaria secondo molti autori che ricorrono al prologo), senza continuità, e poi passa tutto d'un tratto a un'altra storia, il capitolo 1 (se si è fortunati: talvolta prima del prologo c'è il preambolo, così si ha "Preambolo" - "Prologo" - "Capitolo 1").
    Se non sbaglio fu il Duca a indicarmi, tantissimo tempo fa, che è meglio iniziare col primo capitolo e basta. Non può che avere ragione, ovviamente.
Gli orrori narrativi che mi fanno abbandonare un romanzo e perdere fiducia nel genere umano non sono solo questi otto, anzi, direi che questi otto non sono nemmeno i più rilevanti, per così dire. Ci sono anche  l'uso di aggettivi multipli, l'abuso degli avverbi, i verbi "disse" pompati di steroidi (cit. King, On writing), e via discorrendo. Però questo post l'ho preparato in un paio di settimane circa, annotandomi di tanto in tanto cosa mi fa incazzare quando leggo un romanzo, e ho cercato di scriverlo nel tempo libero.
Non prometto nulla, ma forse in futuro potrebbe scapparci qualche altra simile "top ten mancata".

________
Note:
1. La citazione è tratta da questa mia vecchia impressione di Prometeo e la guerra di Alessandro Girola. Non è intenzionale: ricordavo di aver parlato della tecnica dello specchio ma non sapevo dove, così ho googlato "tecnica specchio taotor" e sono arrivato lì.

venerdì 11 ottobre 2013

Impressioni | L'arte di correre, di Haruki Murakami

l'arte di correre haruki murakami recensioneNon è un'autobiografia: Murakami dice che secondo lui queste sono più che altro memorie. Ma siamo lì.
In sostanza, nell'Arte di correre Murakami racconta il suo rapporto con la corsa (e il triathlon) e la scrittura.
Non è propriamente un saggio, né una biografia visto che Murakami non racconta molti eventi di vita, quanto semmai eventi che coinvolgono la sua esperienza di atleta. E a dispetto della quarta di copertina, non è che la scrittura occupi uno spazio così ampio.
Allora perché parlarne? Tanto per occupare banda?
Sì.
A parte questo, non ho potuto fare a meno di notare due aspetti interessanti: uno più psicologico, sulla personalità di Murakami che sembra emergere da quanto scrive, e l'altro - in maniera indipendente - sulla sua concezione della scrittura.
Murakami scrive:
In questo senso scrivere un libro è un po' come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno.
Affermazioni simili, quasi di strazzulliana memoria, mi hanno permesso di farmi un'idea di Murakami non proprio positiva. Ricordo di aver scritto (un sacco di tempo fa, quando ero ancora un imberbe adolescente con idee confuse dai troppi ormoni) un post a riguardo. Lì si parlava di scrivere ogni giorno (il Duca e Gamberetta concordavano con me sul fatto che non fosse necessariamente una cosa positiva), in questo caso invece quel "uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno" fa pensare alla convinzione pittoresca dello scrittore che ha un mondo interno preziosissimo che vale di per sé, senza tener conto della forma in cui lo comunicherà. Si tratta dello "starnuto" strazzulliano, la convinzione sbagliata che illude chi si accinge a scrivere che il successo della sua opera dipenderà dalla potenza del suo genio creativo - qualunque esso sia, al di fuori di ogni giudizio oggettivo, "che non cerca conferma in un giudizio esterno".
Questo mi sorprende un poco, visto che Murakami ha uno stile narrativo neanche tanto male, per esempio in Kafka on the shore, in cui la pecca principale è lo sviluppo sconclusionato della storia insieme alla futilità degli eventi (è anche uno di quei casi in cui lo show è troppo e ci vorrebbe più tell).
Ma a questo punto, vista la sua concezione di scrittura, non mi stupisce che reputi un gran capolavoro Il grande Gatsby, per esempio, che personalmente trovo terribile.
Per il resto, cioè mettendo da parte la questione scrittura, quello che mi è parso di vedere è un uomo introverso, con una tendenza al vittimismo (non so se è pervaso da un umore depresso, distimico, che lo porta a scrivere opere "tronche" o drammaticamente deprimenti come Norwegian Wood, o magari ha solo una tendenza a narrare le storie con questa coloritura) e alcune affermazioni mi hanno ricordato tratti schizoidi:
Con un carattere del genere non penso di poter andare a genio a qualcuno.
Forse c'è uno sparuto numero di persone che provano qualche interesse per me. Ma è piuttosto raro che io piaccia. Chi mai può provare simpatia o qualcosa di simile per uno come me, uno che manca del tutto di spirito di collaborazione, che al minimo contrasto, va subito a rifugiarsi da solo in un armadio? Mi domando però se uno scrittore di professione abbia davvero, fin dall'inizio, la possibilità di essere simpatico a qualcuno. Non lo so. O forse da qualche parte al mondo questo succede.
In diverse occasioni poi Murakami adotta delle similitudini a tema bucolico, dal gusto pseudo-zen, che fanno cadere le braccia.
Direi che più che per la scrittura o la sua vita, L'arte di correre può essere una lettura accettabile per l'atleta che corre e che ha un interesse per Murakami, ma niente di più. Sinceramente, lo sconsiglierei a chiunque altro.

domenica 6 ottobre 2013

Impressioni fulminanti | Dannazione, di Chuck Palahniuk

palahniuk damned romanzoHo riattaccato con Palahniuk dopo una carrellata di romanzi scarsi che speravo di poter addirittura terminare e invece ho abbandonato. Diciamo che è stata una scelta obbligata: si avvicinava l'inizio delle lezioni, e non avrei avuto più il tempo per leggere narrativa, così mi sono buttato su qualcosa di sicuro.

Madison Spencer è una ragazzina di 13 anni che si trova all'inferno per - a suo dire - un'overdose di cannabis. Qui incontra altri ragazzi e personaggi, alcuni anche storici. La storia rivela a poco a poco dettagli sulla vita dei personaggi ma soprattutto su quella di Madison, della sua famiglia, e la verità su come è morta.

Quando leggo Palahniuk so già cosa mi aspetta, e questo si rivela un'arma a doppio taglio. Se da un lato so che sto per leggere qualcosa di alta qualità (il più delle volte), dall'altro mi scoccia come mi saltino all'occhio le strategie stilistiche usate (soprattutto dopo aver letto i suoi saggi sulla scrittura). I cori, le sensazioni on the body, per esempio, o altri pattern tipicamente Palahniukiani.
Di conseguenza mi concentro più sui contenuti. Fermo restando che la riflessione indotta da un romanzo è sostanzialmente una cavolata (nessuno scrive una storia per far riflettere, sarebbe una scelta stupida, ma per comunicare la storia stessa, ed eventuali riflessioni - ma neanche troppe - spettano al lettore, sebbene non siano necessariamente richieste), Dannazione fa riflettere.
L'inferno di Palahniuk non è propriamente cristiano, si potrebbe banalmente definire simbolico - per esempio, si finisce all'Inferno se si lancia più di un certo numero di mozziconi di sigaretta per strada, o se esaurisci il numero di "cazzo" disponibili in tutta la vita -, satirico (riesco a sentire le bestemmie di Dante fin da qui) - i morti finiti all'inferno sono gli stessi operatori dei call center che chiamano a casa nell'orario di cena -, e via discorrendo.
Uno dei "ritornelli" che più mi è piaciuto, da un punto di vista comunicativo a dir poco efficace, è questo:
A chiunque stia leggendo e non sia ancora morto, auguro buona fortuna. Sul serio. Continuate pure a mandar giù vitamine. Continuate a fare jogging intorno al laghetto del parco e a evitare il fumo passivo. Incrociate le dita... magari a voi la morte non capita.
In alcuni punti la potenza narrativa cala, e talvolta il narratore, che è Madison ma allo stesso tempo è il Narratore, non suona per nulla una 13enne: ci si potrebbe sorvolare, assumendo per esempio che il narratore è un filtro del flusso di pensieri di una ragazzina morta. Ma Palahniuk adotta, tra i vari cori, uno ricorrente che ricalca come la ragazzina, a dispetto dell'età, conosca determinati termini e concetti. Insomma, sembra molto più matura di quanto qualsiasi 13enne potrebbe mai essere, e l'incongruenza alle volte viene amplificata.
A ogni modo, nonostante conosca ormai le strategie stilistiche di Palahniuk, devo ammettere che nel romanzo ho incontrato diverse forme davvero efficaci, originali, che confermano la bravura dell'autore, e l'intera lettura è piacevole.
Per concludere, un'opera palahniukiana che, a mio avviso, ogni suo estimatore non dovrebbe farsi mancare di leggere.

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P.S. La copertina originale è bellissima. Quella italiana non si può proprio vedere, per questo ho scelto la prima.

venerdì 27 settembre 2013

Duokan: il software che migliora Kindle e gli fa leggere gli ePub

I Kindle sono ottimi dispositivi. Ma anche i Kobo, e i Sony. Ci sono tanti eReader ottimi, alcuni però hanno caratteristiche che li rendono migliori di alcuni per certi versi, ma peggiori per altri.
Il mio kindle 4 ha cambiato radicalmente il mio modo di leggere, dapprima abituato al Cybook Opus. Poi l'ho confrontato con altri eReader, come i Kobo, e sebbene per certi aspetti in confronto al kobo touch fosse inferiore, per altri sapeva difendersi (come il refresh, i tempi di reazione e in parte anche il contrasto della pagina).
Il difetto più grande di qualsiasi dispositivo Kindle è che non è in grado di leggere il formato ePub (e qualche altro formato).
Duokan ti permette di farlo.
In sostanza, molti dispositivi consentono il jailbreak, un'operazione che ti permette di accedere alle risorse del dispositivo e sfruttarle per sbloccare nuove o migliori funzioni. Il problema è che jailbreakeare un eReader, o un cellulare, o una console, può comprometterne il funzionamento o addirittura invalidarne la garanzia.
Duokan - per quanto ne so - non funziona così. Per poterlo avere, basta scaricare l'archivio, scompattarlo, copiare due file e una cartella nel Kindle, quindi rimuovere l'eReader dal pc e riavviarlo. Oltre a un paio di selezioni di opzioni, il processo è completamente automatico. Una facile guida è reperibile su questa wiki.
Io ho seguito le istruzioni (ma non riuscivo a scaricare l'archivio, forse per colpa di timeout della connessione: alla fine ho googlato il nome del file e l'ho scaricato da un mirror) e l'ho installato facilmente.
I miglioramenti sono evidenti:
- Lo stato della batteria è espresso in percentuale.
- L'avanzamento nella lettura di un ebook è espresso anche in decimali (invece di 1%, 2%, 3%, compare per esempio 4,86%)
- La libreria dispone di visualizzazioni testuali (solo titoli) o per anteprima (copertina, e questa scelta è molto più bella esteticamente).
- Permette il reflow dei pdf, una caratteristica essenziale per i manuali che non si possono convertire con calibre e che di default il mio Kindle 4 non permette manco per sogno.
- Ottimizza la visualizzazione dei pdf (per esempio, mangiandosi i margini bianchi del documento, mi permette di leggere più comodamente i fumetti che hanno il testo dei baloon troppo piccoli)
- Il margine superiore è leggermente minore, permettendo una maggiore capienza di testo nella pagina. O forse è una mia impressione.
- Funzione "start Auto Next Page": una semplice funzione in cui stabilendo un valore di tempo (in secondi), l'eReader volterà la pagina al posto, in automatico, al ritmo prefissato. Non è il massimo, ma se si ha un ritmo definito e soprattutto le mani occupate, la funzione è una manna dal cielo.
- Permette di definire il numero di pagine dopo le quali effettuare un refresh completo
- Permette di avere la barra del progresso nella modalità lettura sia in modalità standard, che "mini" (una semplice tacca nera attaccata alla cornice dell'eReader, si nota solo se si guarda)
- Screensaver personalizzabili: ce ne sono alcuni di default di Duokan, che io ho eliminato e sostituito con altri, presi per esempio da tumblr.
- Fonts customizzabili
- Possibilità di eliminare un ebook direttamente dal dispositivo.
- Possibilità di avere i dettagli del capitolo che si sta leggendo in apice.
- Tastiera qwerty: ok, non essendo touch l'utilità è quella che è, ma siamo abituati alla qwerty quindi è meno frustrante inserire il testo.

Contro:
- Ho notato che alcuni file, convertiti da Calibre per eliminare lo spazio tra i paragrafi, nell'OS proprietario di Kindle vengono visualizzati bene (cioè come un testo continuo), mentre Duokan sembra ignorare la modifica e mostra paragrafi spezzati l'uno dall'altro, come i file convertiti da pdf a ePub alla buona. Devo ancora controllare se generando nativamente un testo privo di spazi tra paragrafi l'errore persiste, e devo controllare anche se Sigil può identificare un eventuale codice nascosto, colpevole dell'effetto, nei file convertiti che mostrano questo fenomeno.
- L'orologio non mantiene il formato: questa mattina ho preso il Kindle per controllare l'ora (il cellulare ci mette troppo ad accendersi, mi acceca e non uso sveglie), mi segnava le 20.15. Erano sì le 8,15, ma della mattina, e a quanto pare anche se modifico il formato dell'ora (12/24), non mantiene. Ma devo lavorarci su, potrebbe essere un mio errore. In che emisfero siamo?
- La grandezza del testo: tra il valore minimo e il valore successivo c'è uno scarto troppo ampio. Mi piacerebbe leggere col testo di dimensioni tra la 1° e la 2° grandezza, ma non è possibile. Forse l'aggiornamento del firmware potrà aggiustare questi problemi, ma non sono riuscito a scaricarlo da pc (mi cade al 10-20%), e proverò a scaricarlo dall'eReader, sperando che nonostante i fallimenti nella connessione col server (il mio router funziona bene), riuscirà a portarlo a termine.
Per concludere: alcuni handicap, a livello software, del kindle, possono essere eliminati con Duokan. L'installazione è semplice, e se si segue la guida e non si fanno mosse stupide (per esempio, eliminando a caso file di sistema del dispositivo), non si compromette nulla. Di fatto, i ragazzi che hanno sviluppato questo software andrebbero ringraziati e assunti dall'Amazon, ma così non è ("Bisogna comprare solo ebook per Kindle!", tirannia idiota e controproducente, come se non esistesse la pirateria).
Duokan è un progetto che tutto sommato - credo - segue la filosofia di Linux. Funziona meglio del sistema standard ed è gratuito. Se avvertite dei limiti col vostro Kindle, ed è possibile installarci sopra Duokan, vi consiglio di farlo.

EDIT 29/05/2014: l'aggiornamento 2014 porta alcuni leggeri miglioramenti, tra i quali però non c'è la larghezza intermedia tra le dimensioni del testo. Col tempo però mi sono reso conto che le dimensioni standard dei caratteri di Duokan sono leggermente migliori di quelle dell'OS di Kinde, almeno secondo le mie esigenze.
Un'aggiunta abbastanza utile è il My Cloud, un cloud accessibile con un account Xiaomi (chi ne sa di più è il benvenuto per spiegarmi/ci il funzionamento). Se fossi nel gruppo di sviluppatori di Duokan, sicuramente punterei molto sull'interazione col web, rendendo l'eReading molto più social direttamente dal dispositivo, un campo che Readmill stava riuscendo ad esplorare su Android/iOS, e che Dropbox ha prontamente fermato reclutandone gli sviluppatori.
Unica vera novità di Duokan 2014 è il web browser, assente nelle versioni precedenti: questo fa guadagnare un punto molto importante per il firmware, che si avvicina sempre di più all'essere un completo sostituto dell'originale. Basti pensare che tra la possibilità di comprare Gli dei di Mosca in ePub (per il mio vecchio Opus da 5'' e per il tablet) o da Amazon per Kindle, ho scelto di comprarlo in ePub per avere l'ex libris personalizzato con la fatina Scintilla, ma l'ho letto sul Kindle proprio grazie a Duokan.
Insomma, a Duokan manca solo il Whispernet di Amazon per poter essere adottato come OS migliore dell'originale in tutto e per tutto.

venerdì 20 settembre 2013

Impressioni | Old man's war, di John Scalzi

old man's war john scalzi sci fiSe questa fosse una recensione di Tapiro, comincerebbe tipo così:

Quando arrivi a 75 anni sai che gli anni che ti rimangono non sono tanti, e per giunta sono segnati dagli effetti del tempo sul corpo. Ma se potessero ridarti indietro la giovinezza, un corpo più forte, abilità superiori, in cambio dell'arruolamento nella Colonial Defence Forces, in un altro sistema solare, rinunciando completamente alla tua vecchia vita, accettando di difendere l'umanità e combattere contro razze aliene per almeno 10 anni?

Ma io sono più un tipo da I ghezzi vostri, e vado per il parere ignorante, breve e non richiesto.
Old man's war è un bel romanzo di fantascienza.
Uriele me lo aveva consigliato tempo fa quando lo regalavano se acquistavi dei bundle.
Al contrario di certe opere sci-fi, Old man's war è godibile senza dover cedere a compromessi di ritmi altalenanti o tsunami di infodump. La narrazione è in prima persona, il narratore è il protagonista. Il 40% circa dell'opera è tutto un "inizio". Ingrana fin da subito, sì, ma fino al 40% tu ti chiedi: "Sì ma quand'è che le cose cominciano a farsi serie?".
Lo stile è molto buono, c'è dell'umorismo sparso che nella prima metà dell'opera mi ha fatto davvero ridere (per esempio, il protagonista che setta il suo BrainPal), e nel complesso alleggerisce quella tensione che talvolta gli autori creano, magari involontariamente, per dare spessore e serietà all'opera - ma che il più delle volte infrange il quarto muro e abbassa la qualità del tutto.
Essendo sci-fi, l'infodump non può mancare. Eppure lo si trova praticamente "spiattellato" con eleganza e ironia:
"I feel a physics lceture coming on," I said.
"I thaught physics to teenagers for years," Harry said, and dug out a small notepad and a pen. "It'll be painless, trust me. Okay, now look." Harry began drawing a circle at the bottom of the page. "This is the Earth. And this"--he drew a smaller circle halfway up the page--"is Colonial Station. It's geosynchronous orbit, which means it stays put realtive to the Earth's rotation. It's always hanging above Nairobi. With me so far?"
L'infodump c'è, lo sai tu lettore, lo sa l'autore, lo sanno persino i personaggi. Detto ciò, ci si toglie il dente senza tanto dolore ed ecco che le informazioni filtrano e accontentano sia l'appassionato di Fisica, sia il lettore standard.
In altri casi l'infodump è un po' più "doloroso":
The Gehaar were one of the first intelligent aliens humans encountered, in the days before the Colonial Union established its monopoly on space travel. Nice enough people, but they ate by injecting their food with acid from dozens of thin head tentacles and then noisily slurping the resulting goop into an orifice. Messy.
In questo caso è il narratore stesso che parla, ma il narratore è anche il protagonista, e fa dell'ironia, quindi, tutto sommato, si può prendere con filosofia qualsiasi cosa dica senza che stoni troppo con la narrazione.
Ogni tanto a Scalzi piace tanto infilare avverbi in -ly completamente inutili:
He glanced over, said, "Oh, look, it's the Bible freak," and then studiously ignored me, which took some doing in a room that was ten by ten.
O ancora:
She smiled at me and gripped my hand. "No," she said hoarsely. "Not too sad. But even still. Even still."
O ancora:
Blessedly, the video feed switched off right after that.
Perché? Perché?!
Ma non fa niente, perché quando meno te lo aspetti - per esempio durante un momento d'azione concitato, in cui il protagonista gira armato su un pianeta nemico, con alieni attorno che potrebbero spuntare all'improvviso - ecco che il narratore ti regala un sorriso:
Directly in front of me at forty meters was an abstract sculpture of some description; I nailed it as Bender and I ran. Never much liked abstract art.
Old man's war mi ha colpito fin dall'inizio per lo stile narrativo, e non mi ha deluso. Mi sarebbe piaciuto leggere altre idee riguardo alla tecnologia usata dalla CDF, o riguardo alle culture aliene ecc., ma niente paura: a Old man's war seguono altri tre romanzi.
Ha la mia attenzione.

venerdì 13 settembre 2013

Impressioni fulminanti | Iron West, di Doug TenNapel

earthworm jim doug tennapel iron west comic book steampunkIron West è una graphic novel ad ambientazione western con "elementi" di meccanica che ricordano lo steampunk, ma che poi a ben vedere è sci-fi.
L'autore è Doug TenNapel, il creatore di Earthworm Jim - chi ha grosso modo la mia età si ricorderà del videogioco per Super Nintendo.
Lo stile di disegno è tendenzialmente cartoonoso, e la storia di per sé non è eccezionale - cliché ormai noti e abusati in qualsiasi film e nei peggiori romanzi trash. Siamo in California, c'è l'eroe, lo sceriffo, ci sono dei nemici robot. Niente di geniale.
Ad ogni modo l'opera nel suo complesso è divertente e alcune vignette sono piccoli capolavori.
Sul mio Kindle 4 la conversione da .cbr a .pdf ha ridotto di molto le dimensioni del file originale e l'ha reso leggibile sul dispositivo. Paradossalmente, mi è stato più comodo leggere sul Kindle, con lo schermo da 6'', piuttosto che sul computer, schermo da 10,1''. Immagino che sia a causa della diversa distanza dagli occhi, ma sicuramente il contrasto bianco/nero che offre l'eInk fa la differenza.
Questa è la mia prima esperienza di lettura di fumetti su eReader, e devo dire che mi sono trovato bene. L'unico problema è, ovviamente, il testo. In questo caso è stato leggibile, ma lo stesso fumetto su un Kobo Aura sarebbe stato sicuramente perfetto.
Ho fatto un paragone con altri fumetti: se l'opera in questione possiede numerose vignette, con molto testo, difficilmente si potranno distinguere le lettere dei baloon, senza sforzarsi (o senza fare lo zoom). Inutile dire che lo zoom è fuori discussione: sarebbe una lettura scomodissima stando a spostarsi in diverse sezioni della stessa pagina.
Ad ogni modo, se si ha un eReader da 6'', consiglio di provare comunque a leggerci sopra i fumetti. Se ci si trova bene come mi ci sono trovato io, si aprirà un nuovo mondo (fatto di centinaia di titoli facilmente scaricabili).

(Un estratto; adoro com'è disegnato il vecchio Two Rivers e l'umorismo dell'intera opera)

lunedì 9 settembre 2013

Impressioni ristrette | Domani il mondo cambierà, di Michael Swanwick

swanwick station tide domani il mondo cambierà recensioneMichael Swanwick, con quest'opera - titolo originale: Stations of the tide, e si noti la grande affinità col titolo italiano - ha vinto il premio Nebula nel 1991.
Queste sono le cose che mi perplimono.
Ho interrotto il romanzo al 50% della lettura. Avevo intenzione di farlo già da prima ma verso il 20% spuntano idee interessanti che mi convincono a proseguire nonostante lo stile pessimo.
Perché è lo stile che davvero rappresenta un ostacolo alla lettura. Non so se sia corretto definirlo naïf, ma è quello stile che di solito io personalmente chiamo "romanzese" o "scrittorese": alcuni autori, di solito quelli alle prime armi, nel narrare usano un lessico che secondo loro è quello "tecnico", il linguaggio che va usato quando stai raccontando una storia.
"Era una notte buia e tempestosa".
Lo stile di Swanwick in Stations of the tide è come se fosse a un livello superiore dello "scrittorese": i cliché vengono rimpiazzati direttamente con le forme "auliche", come literary fiction da studiare a scuola e farci poi gli esercizi "Vedete, ragazzi, come l'autore ha usato una metafora in cui quel personaggio viene identificato con quell'animale, e ciò indica la natura meschina di Taldeitali, ecc. ecc. capolavoro, capolavoro, genio assoluto per aver pensato a una cosa simile, imparate a memoria".
In realtà dovevo aspettarmelo. Tapiro mi aveva già avvertito dello stile "intellettualoide" adottato nel romanzo, ma dovevo testimoniarlo di persona.
Certo, l'ambientazione è affascinante - laddove si capisce di cosa si sta parlando -, e sicuramente sarebbe bello approfondire. Ma ci troviamo di fronte a questo:
- Ciò che mi lascia perplesso - disse per mascherare il suo sospetto - è che...
Il narratore che svela le intenzioni dei personaggi in maniera palese.
Chu non fece finta di non capire. 
Spiegazione delle intenzioni di un personaggio + doppia negazione: addirittura combo! Non nascondo di non apprezzare questa forma.
Era preoccupantemente facile ubbidire a quel mostro, poiché era molto decisa nei suoi ordini.
Tralasciando il resto: gli avverbi in -mente. Per di più inutili, non solo brutti, ma proprio del tipo che se li ometti non solo non ci perdi, ma ci guadagni. Ce ne sono a iosa.
- Be'... - I denti dell'uomo erano rotti e ingialliti, le sue gengive erano violacee, e il suo alito aveva il puzzo della corruzione.
Il consueto "puzzo della corruzione". Queste sono le forme "auliche" che capita di trovare nelle opere di quegli autori che magari ci provano, così, gli scappa, "come uno starnuto" (Cit.), oppure tentano di fare Alta Narrativa da studiare al liceo (stile Wu Minghi).
Il burocrate percepì la presenza ronzante ed encefalica delle venti sibille, che facevano parte del sistema, nel retro del suo cervello.
Fantascienza o no, la "presenza encefalica" è un'affermazione che non significa assolutamente nulla.
Il burocrate fissò meravigliato quei fantasmi silenziosi e pensò: "Non esistono creature simili". Anche se, in verità, non riusciva proprio a immaginarsi per quale motivo non dovessero esistere. Immerse fino alle cosce, si muovevano silenziose come sogni e alte come dinosauri, sonnambule eppure sicure come un desiderio.
(Anche qui tralasciamo il resto) Ad essere sincero a me le similitudini evocative, efficaci, piacciono. Lo so, magari non sono il mezzo più indicato per narrare, ma in alcuni romanzi ne ho trovate di efficaci, che mi avevano colpito.
Queste appena citate, però, no. Che diavolo significa "silenziose come sogni" e "sonnambule eppure sicure come un desiderio"? Perché usare mille parole quando ne basta una, o due?
Di fatto il romanzo non era così difficile da leggere, ma spesso e volentieri lo stile pessimo mi ha fatto cadere le braccia, e a quel punto dovevo scegliere se continuare qualcosa che comunque fino a metà opera non mi aveva convinto granché o cercare qualche altro romanzo.
Alla fine ho optato per chiudere.

sabato 7 settembre 2013

Impressioni fulminanti | La scimmia pensa, la scimmia fa, di Chuck Palahniuk

la scimmia pensa la scimmia fa stranger than fiction chuck palahniukIl titolo originale è Stranger Than Fiction: True Stories, e la scimmia io me la sarei risparmiata benissimo, fossi stato il traduttore.
Non si tratta di un romanzo, ma di una raccolta di interviste, racconti brevi, saggi, vita privata di Palahniuk. In pratica è un po' come leggere dei post di un blogger scrittore che mette impegno narrativo pure nei post e produce piccole opere da fatti personali.
Sarò sincero, certi racconti avevano quell'impronta palahniukiana troppo pesante, che non funziona sempre (su di me, almeno). Certi racconti puoi narrarli con stile e farli funzionare, altri racconti non vale la pena narrarli, o comunque non lo fai sempre nello stesso modo.
C'è ben poco da dire, in realtà.
I racconti sono brevi e se ti annoiano, ci vuole poco a finirli (oppure salti al prossimo e via, non ti perdi niente). Gli eventi di vita che racconta Palahniuk sono interessantissimi, e da psicologo in formazione e scrittore "amatoriale" non posso che essere affascinato da ciò che ha affrontato questa persona (alcuni stralci della sua vita si possono leggere nei suoi Essays), del modo in cui ha affrontato tali eventi, e del modo in cui li racconta.
Per quanto riguarda le lezioni di stile, per così dire, o meglio gli omaggi ai suoi maestri, come ho già detto, si ha un déja-vù se hai già letto i suoi saggi sulla scrittura. Di fatto sono tutte indicazioni valide, ma non posso fare a meno di chiedermi se lo stesso stile sia efficace con qualsiasi storia.
Io ne dubito.
Ad ogni modo, se non ti piace Palahniuk, dubito che abbia senso leggere Stranger than fiction. Altrimenti, rappresenta una buona occasione per approfondire un po' il suo mondo.
Non la reputo comunque un'opera indispensabile.

venerdì 30 agosto 2013

Impressioni | Lo sconosciuto n°89, di Elmore Leonard

elmore leonardo sconosciuto 89
Wikipedia vi dirà tutto quello che c'è da sapere su Elmore Leonard. È un romanziere, ha scritto un sacco di opere e da molte di queste si sono ricavati dei film, tant'è che è famoso anche come sceneggiatore. Una vita per la fiction, in pratica. È morto 10 giorni fa, il 20 agosto.
Ho scelto di leggere Lo sconosciuto n° 89 senza alcun motivo, mi piaceva il titolo.
Si tratta, di base, di una crime story, un poliziesco più originale rispetto al cliché del detective che risolve i casi, in primis perché il protagonista non è un detective – anzi, è un povero cristo con precedenti e problemi personali, che al momento degli eventi ha trovato un equilibrio per vivacchiare normalmente.
In secundis, lo spirito del romanzo è lontano dal dramma misterioso, quasi chic, delle detective stories.
I personaggi vengono dal ghetto, tirano a campare, vivono alla giornata e non si fanno problemi se per alzare un po' di grana si rischia la galera.
Elmore Leonard viene considerato un maestro dei dialoghi. Fermo restando che, personalmente, condivido l'opinione di King sul fatto che è difficile far suonare credibile un dialogo, anche se si registra una telefonata e la si riporta per iscritto, nonostante ciò è evidente che i personaggi di Elmore Leonard non suonano finti, anzi. C'è da imparare, sicuramente.
Lo stile non è propriamente perfetto, i POV sono vari (e nella versione digitale che ho letto, non erano separati da un qualsiasi segno o riga bianca), sempre in terza persona, con una buona dose di infodump non fastidioso.
Ma suppongo che il romanzo sia godibile proprio in virtù dello stile vivace, dei dialoghi verosimili e dei personaggi credibili.
Forse per lo stile, forse per i personaggi, o forse perché la storia è stata scritta e ambientata nel 1977, ho avuto come l'impressione di leggere un Bukowski sobrio (letteralmente, non metaforicamente) e deciso.
Ho finito il romanzo grosso modo in 24h, tra un impegno e l'altro, e considerando che sono molto comodo nel leggere (slow reading), questo è indicativo dell'abilità di Elmore. Oltretutto il genere non è il mio preferito, ma verso il 40% dell'opera la storia, a mio avviso, ingrana ancora meglio e un eventuale calo di interesse/attenzione viene compensato da un ritmo più incalzante per tutta la restante parte.
È un romanzo (o un autore?) che, al di fuori del genere, che può non piacere, consiglierei di certo a qualsiasi scrittore, se non altro per ammirare l'abilità narrativa e prendere spunto.

lunedì 26 agosto 2013

Impressioni fulminanti | La danza dei draghi, di George R. R. Martin

danza dei draghi george r r martin recensioneOgni volta che comincio a leggere uno dei volumi di A song of ice and fire mi domando se poi varrà la pena scriverci un post.
Alla fine ho pensato che, perché no, un'impressione veloce male non fa.
Rispetto a quello che stavo leggendo prima, appena ho ripreso in mano Martin mi son detto: "Ah, finalmente". Poi continuando ho ricordato perché non fosse il mio primitivo.
Il narratore di Martin è attratto dalle ovvietà, che non manca di presentare, e non lo fa attraverso il pensiero dialogato dei personaggi, ma al di fuori, proprio nella narrazione. Questo mi ha dato fastidio. Che senso ha far notare qualcosa di per sé evidente?
Come per gli altri volumi, il livello di infodump è alto e sempre presente. E l'entità delle informazioni è rilevante: non si parla di fuffa, ma di veri e propri fatti che avvengono al di fuori degli eventi che interessano un personaggio, fatti che comprendono l'intero mondo, e che hanno effetti sullo sviluppo di altre sotto-trame.
Io so che ci sono lettori che memorizzano tutto, riescono a gestire questa mole incredibile di informazioni e ci speculano sui forum facendo profezie su ciò che potrebbe accadere in futuro.
Io questo lo so.
Ma so anche che è troppo. Il lettore medio (quale io mi ritengo) difficilmente assorbirà questa mole di informazioni. Per fare un paragone, è un po' come giocare a un MMORPG per divertirsi e passare la serata (casual gamer) vs giocarci imparando a memoria tutti i dettagli delle armi, item, i relativi valori, le statistiche, ecc. (power gamer).
Magari il paragone è un po' azzardato, ma diciamo che se tutte queste informazioni non ci fossero state, io non ne avrei sentito la mancanza.
Rispetto ad altri volumi più noiosi, La danza dei draghi è un po' più ricco di colpi di scena o eventi importanti. E tra i personaggi che muoiono, ce n'è uno che nessuno si sarebbe mai aspettato. Nice job, Zio Martin.
Detto questo, per smorzare l'impressione di criticone che potrei dare, A song of ice and fire è l'unica saga che continuo a leggere dopo tanti anni. Erikson, Jordan, Brooks, per citarne alcuni, tutti abbandonati (talvolta dopo il primo o pochi altri volumi). E, si badi, la serie tv di Game of thrones è uscita molto di recente (lessi Il portale delle tenebre nel 2004 o 2005, e dal 2010 ho continuato a leggere tutti gli altri man mano che sono usciti).
Insomma, la saga sarà diventata anche mainstream (ricordo il post sul blog di Martin in cui lo Zio affermava che sarebbe stato impossibile trasporre Asoiaf come film o serie tv: ecco un caso in cui la brama di denaro porta a qualcosa di buono - la maggior diffusione dell'opera), ma posso dire che, al momento, anche questo volume contribuisce a spingermi nel continuare a leggere la saga.

martedì 30 luglio 2013

Impressioni | World War Z, di Max Brooks


Non sono un fan sfegatato di horror e zombie, nel senso che non me li vado a cercare spontaneamente. E peggio ancora, se esce un film tratto da un libro, raramente corro a leggere la versione letteraria originale (fatta eccezione per autori come Matheson e altri).
Quando ho visto il trailer di World War Z ho pensato: un'epica cafonata hollywoodiana, non posso perdermela! Attendo il dvd e me lo vedo a casa con amici, birra e patatine. Non mi sono informato ulteriormente. Poi un amico mi ha detto che il romanzo da cui è stato tratto è “completamente diverso” dal film, accennando a uno stile narrativo basato su interviste. Generalmente diffido da affermazioni simili, se non sono arricchite da spiegazioni. Molte persone ritengono che la storia cartacea abbia un valore intrinseco che le conferisce più valore e dignità rispetto a un film (le stesse persone che osannano “Il profumo della carta” e si spacciano per intellettuali ma poi leggono Fabio Volo, Baricco o Licia Troisi).
La verità è che ci sono un sacco di romanzi scadenti con la corrispettiva versione cinematografica di gran lunga migliore.
Mi sono fidato del consiglio del mio amico e in effetti non mi sono pentito.
World War Z è un romanzo formato da un certo numero di interviste. Il protagonista sostanzialmente è l'intervistatore, di cui però non si sa nulla, è in secondo piano e interviene solo per fare domande.
I personaggi intervistati parlano del proprio lavoro o della propria vita dal momento del Grande Panico (alias la consapevolezza della diffusione della cosiddetta Rabbia africana, cioè il virus “zombiesco”) fino al tempo attuale. Civili, militari, ognuno dà il suo contributo.
L'inizio del romanzo tratta dei casi di infezioni in Cina e in tutto l'oriente, dopodiché gli intervistati appartengono a zone diverse del pianeta. Ogni intervista contribuisce a delineare un quadro generale e strutturato del mondo invaso dal morbo, con tutti i fenomeni sociali che ne derivano (per esempio, i “coyote” orientali che lucrano sull'evasione della gente dal paese infetto, come accade per Messico-California ecc., o l'invenzione tempestiva di presunti vaccini per il virus), ma anche le dinamiche politiche (ostilità tra paesi, riorganizzazione militare ecc., l'istituzione di nuovi nuclei), psicologiche/antropologiche (il nuovo stile di vita post-apocaliptico in cui i lavori di manovalanza sono gli unici utili, al contrario di quelli da ufficio, con una conseguente inversione di ruolo, o il clima emotivo di ansia e PTSD a man bassa), e le caratteristiche della malattia (come avviene il contagio, come evitarlo, come riconoscere gli zombie veri dai quisling, la gente non infetta ma che ha perso la brocca e pensa di esserlo).
Sono rimasto molto colpito dal romanzo. La forma della narrazione è stimolante. Sono vere e proprie cronache, è una forma che rompe con la solita linearità di narrazione di una storia. Diversi personaggi espongono la storia nel loro proprio stile comunicativo, e questo dà spessore ai personaggi.
Come al solito ci sono dei “ma”, perché sennò non sono contento.
Le interviste sono tante, non finiscono mai, ma va bene; il problema è che la solfa è sempre quella. Lo stile comunicativo originale appartiene a pochi personaggi in realtà: la maggior parte sembra avere sempre un tono saccente che ti fa dimenticare chi è che sta parlando al momento, se il militare esperto o un guerrigliero, un veterano.
I temi affrontati sono sempre quelli, sotto diversi punti di vista. E va bene. Ma i particolari su cui si soffermano sembrano essere talvolta sempre i soliti: le armi, i nuovi nuclei organizzativi (ognuno con un acronimo), i protocolli.
A un certo punto, verso la fine, ero stanco di leggere (e vedere con gli occhi della mente) l'ennesimo uomo/donna che la sa lunga, che parla di organizzazioni e politica, e via discorrendo.
Ho trovato molto più interessanti e toccanti le situazioni psicologiche (deformazione professionale a parte) che riguardavano il cambiamento nei rapporti interpersonali in un mondo apocaliptico, il cambiamento dei valori, l'acquisizione di un nuovo modo di vedere la vita, e via discorrendo.
Ho apprezzato molto anche le idee dei quisling, degli zombie che al nord o in inverno congelano e non sono un pericolo, quelli che affollano i mari, e altre particolarità.
Posso dire con coscienza che di per sé il romanzo è ben fatto, vale la pena leggerlo e sicuramente offre spunti e può appassionare gli amanti del genere. Un mio consiglio all'editor sarebbe stato di sfoltire le parti a tema politico (sfoltire nel senso che, a concetto chiaro, fermarsi lì e non stare a ricamarci sopra) e istituzionale (sostanzialmente aria fritta, tutti questi acronimi di gruppi, protocolli, ecc.: basta far capire il messaggio e poi lasciarlo lì: le storie, l'azione, il movimento sono interessanti, la teoria sterile e fine a sé annoia, considerando poi che l'intero romanzo è un insieme di digressioni, spesso spiegazioni a tavolino, talvolta storielle, rincarare la dose con astrazioni e teorie non fa tanto bene.)
Per concludere: il film con quel mandibolone di Brad Pitt non l'ho ancora visto. Il romanzo mi ha soddisfatto, e dubito che il film abbia granché a che fare col romanzo (perché altrimenti sarebbe un film noiosissimo), per cui non saprei proprio se è meglio leggere prima uno e poi vedere l'altro, o viceversa, o nessuno dei due.
Posso solo dire che il tempo speso per leggere è stato ben ripagato. Direi che è un buon esempio di uno dei modi in cui si può raccontare (bene) una storia. Se dovessi dare un voto direi 8.

venerdì 19 luglio 2013

Impressioni ristrette | Inferno, di Dan Brown

Questo post è una trollata.
Non sono un fan di Dan Brown, lessi solo, in illo tempore, Il codice Da Vinci e Angeli e demoni, troppo tempo fa per poterne parlare sul blog (che non esisteva ancora). Di questi due avevo apprezzato il fatto che, nonostante tutto, l'autore (o un buon editor?) fosse riuscito a dare un ritmo serrato all'intero romanzo, soprattutto grazie al rispetto dell'unità aristotelica del tempo: tutto accade in una giornata.
A parte questo, i romanzi di Dan Brown li paragonerei ai film d'azione/avventura spruzzati di comicità, senza pretese. Offrono qualcosa che piace senza badare granché al resto.
Questo post è una trollata per due motivi:
1. Ho terminato la lettura al 20% dell'opera.
2. Il web è pieno di recensioni di Inferno più accurate (e di gente che ha finito di leggerlo). Mentre scrivo, ho già due recensioni di amici blogger in attesa di lettura (bugia, ci ho già dato un'occhiata ma non ho continuato per paura di spoiler e per non lasciarmi influenzare nello scrivere questa opinione).
Perché ho interrotto la lettura al 20%?
Di per sé non è tanto male, come romanzo. In realtà non avrei problemi a consigliarlo a un lettore medio che in un anno legge un paio di libri (d'estate, al mare). Ma è proprio di questo, che si tratta. Attingendo da Wikipedia inglese:
The Boston Globes Chuck Leddy compared the book favourably to Brown's previous works, and deemed it "the kind of satisfying escapist read that summers were made for."
Ma condivido anche:
James Kidd of The Independent panned Brown's awkward prose but expressed approval of the book's plot, writing: "Brown's fusion of gothic hyperbole with a pedant's tour-guide deliberately restrains the imagination through its awkward awfulness."
Ed ecco i motivi per cui ho scelto di non perdere tempo nella lettura e interromperla.
La pedanteria da guida turistica del narratore che si inserisce in maniera fastidiosa nella storia. Per un italiano è davvero frustrante leggere un americano che ti spiega (male) la Divina Commedia. Non c'è alcuna sorpresa in ciò che spiega il narratore, studiamo questa roba a scuola per anni. Dimmi Inventa qualcosa che non so!
Ovviamente stiamo parlando di infodump becero e intrusivo. Infodump che apre la pagina e non la chiude nemmeno, con tanto di date, nomi ecc.
Ho fatto un elenco di cose che mi hanno dato fastidio durante la lettura, vorrei condividerle con voi.
Gli stereotipi (falsi) sugli italiani: i due protagonisti entrano in un ascensore che puzza di caffè e sigarette. Vada per il caffè, ma mi pare che questo sia lo stereotipo dei francesi, semmai (anche se la popolazione che fuma più in assoluto è quella cinese, statisticamente, ndr).
La dottoressa Sienna, il genio, illustra nozioni davvero bizzare di neuropsicologia, specificamente sulla memoria. E anche Dan Brown: l'affiorare dei ricordi specifici associato a fitte alla testa mi sembra un qualcosa di romanzesco (nel senso "ad minchiam"), assai poco o affatto scientifico. I ricordi possono far male emotivamente, non fisicamente.
I POV: tutti hanno un POV, a momenti anche i cani. Tipicamente, anche se può essere una buona strategia, troppi POV sono dannosi, soprattutto se attribuiti a personaggi inutili o la cui utilità è tale nel momento in cui agiscono in secondo piano e contribuiscono allo sviluppo della storia senza avere i riflettori addosso.
Nel complesso, la narrazione e tutto il resto dà al romanzo un'aria così naïve da farti dire: "Aaaw, piccolo Danny, come sei carino e ingenuo!". Di contro, nei momenti in cui non c'è l'infodump più gretto, lo stile non ostacola eccessivamente la lettura che, anzi, è anche godibile.
Tuttavia il copione è sempre quello. Non che mi aspettassi chissà quale novità, ma non ricordavo livelli così alti di infodump, e credevo che, complessivamente, sarei stato catturato dalla lettura.
Non è stato così.
Avanti il prossimo romanzo.

martedì 16 luglio 2013

Impressioni | Hyperion, di Dan Simmons

hyperion dan simmonsDopo La scomparsa dell'Erebus, ero curioso di leggere l'opera per cui Dan Simmons è ricordato principalmente, Hyperion.
Senza dover andare a cercare su Wikipedia, ecco il romanzo in poche parole: è strutturato in sei racconti appartenenti ai sei personaggi protagonisti, la cornice narrativa principale è quella che vede il gruppo nel pellegrinaggio verso le Tombe del Tempo, sul pianeta Hyperion, luogo misterioso dominato da campi antientropici che portano il luogo indietro nel tempo. Lo Shrike è una sorta di divinità omicida che occupa le Tombe, e complessivamente la storia di ogni personaggio è connessa con le Tombe.
Ora parliamo (ok, parlo) di alcuni aspetti del romanzo.
Aspetti positivi: le idee sono buone e numerose. Non essendo un cultore di fantascienza, immagino che non tutto sia necessariamente innovativo o eccezionale. Ma tant'è, io ho apprezzato.
Il background è ampio e strutturato, ricco di particolari.
Tutto questo calderone dovrebbe dar luogo a un'opera eccezionale, eppure Simmons gestisce il tutto in maniera approssimativa e non sfrutta il potenziale di tutto il lavoro fatto di worldbuilding (oserei dire universe-building, a questo punto).
L'infodump regna sovrano. Non sarebbe così grave, di per sé: il retroscena è interessante, e conoscere tecnologie, sviluppi "storici" e via discorrendo potrebbe ripagare la scelta stilistica infelice.
Ma l'infodump più gretto, con una digressione sugli eventi passati e spiegazioni palesi dei nessi tra un concetto e l'altro, viene affiancato da elementi dell'ambientazione gettati così, senza spiegazione. Com'è fatto un VEM? Boh! E un comlog? Boh!
Peccato: laddove lo stile è carente, una ricchezza di spunti e di background riequilibrerebbe il tutto.
Le descrizioni talvolta sono approssimative anche per quanto riguarda i luoghi: fatta eccezione per alcuni, è impossibile avere una chiara idea di cosa ci stia presentando il narratore. A volte le descrizioni sono solo in "scrittorese", buttate così senza mostrare veramente qualcosa (come per il Castel Crono, che è un ammasso di scalini e sale buie ecc.,), altre volte invece semplicemente il narratore non ti dice le cose come stanno. Il mare d'erba è fatto di acqua o di erba? L'imbarcazione che lo solca galleggia o ha le ruote? Può suonare stupido, ma io non l'ho mica capito, fino alla fine.
Il punto forte, per così dire, del romanzo sono le ministorie che lo compongono. Io sono stato più attratto dalla narrazione principale piuttosto che dai flashback: si tratta di riassunti o dell'intera vita di un personaggio o di un momento particolare, condensati ciascuno in alcune decine di pagine con tanto infodump e melodramma.
Mettendo a confronto i racconti di Cavie (Haunted) di Palahniuk, che ha analogamente una struttura "decameronesca", e quelli di Hyperion, è evidente quanto un grosso brufolo che i personaggi di Dan Simmons non riescono ad avere spessore e a suscitare l'interesse dei personaggi di Cavie.
Ho preso come metro di paragone Palahniuk perché in Cavie la storia di ogni personaggio occupa lo stesso spazio narrativo dei personaggi di Hyperion, e in entrambe le opere i temi di fondo non sono semplici conflitti ma veri e propri drammi.
Ho apprezzato la storia del prete, principalmente per la forma diaristica. Però la storia migliore, a mio avviso, è quella di Sileno, principalmente per lo stile che ricalca perfettamente la personalità del personaggio (ha carattere, ha un buon "impatto" comunicativo ed emotivo).
Le altre le ho trovate appena sufficienti o patetiche (Brawne Lamia, il frutto dei più banali cliché sui detective, o  la storia del Console, con la doppia cornice narrativa che, in aggiunta alla principale, dà luogo a tre tempi, crea confusione ma soprattutto noia).
Per finire, il gran finale, finalone infodumposo in cui il narratore sputtana tutto il significato dell'opera sembra un vizio che Simmons non ha voluto togliersi nemmeno nella Scomparsa dell'Erebus. Il Console, alla fine del romanzo, scioglie tutti i nodi della trama e fornisce i plot twist. Così come nella Scomparsa dell'Erebus Simmons spiega, ponendosi fuori dal tempo narrativo, gli aspetti magici e misteriosi che permeavano la storia.
Ho letto sul web che il romanzo può essere considerato autoconclusivo. Non vedo come si possa dire una cosa simile: è palesemente un finale aperto.
Al momento, non credo che continuerò a leggere altro di Dan Simmons. Se all'inizio Hyperion mi è sembrato soddisfacente - più per i contenuti che per la forma -, verso la fine ho capito di essere troppo insofferente verso lo stile.
Non escludo che qualcuno possa trovarlo un romanzo bellissimo: gli appassionati di fantascienza pura probabilmente possono focalizzarsi più sugli aspetti contenutistici che su quelli narrativi, ma non si può dire che sia un romanzo scritto bene. Per poterlo leggere e apprezzare, è necessario mettere in conto una certa dose di noia e ritmi lenti.
Volendo fare un paragone con Asimov, oserei dire che sebbene abbia uno stile peggiore, riesce a offrire una storia più forte, trame meno patetiche e plot twist credibili insieme alle idee interessanti. Insomma, preferirei Asimov a Dan Simmons.
Consiglierei Hyperion agli appassionati di Sci-fi in quanto ulteriore spunto di idee, ma difficilmente lo consiglierei al lettore medio "casuale".

mercoledì 10 luglio 2013

Impressioni | Kobo mini, promozione di luglio/agosto 2013

kobo mini mondadori promozione in offerta recensione

Ho avuto modo di provare il Kobo mini e non ho potuto fare a meno di scattare qualche foto e farmi un'opinione. L'opinione, lo dico da adesso, è abbastanza positiva, per il dispositivo in sé, ma estremamente positiva per la promozione della Mondadori, che lo vende al 50% dal 6 luglio (fino ai primi di agosto, se non sbaglio, ma al momento non riesco a trovare dettagli sulla promozione).
In pratica vi portate a casa un buon eReader a 39€.
Il costo di due copie di Inferno di Dan Brown (in realtà anche meno).
Il Kobo mini in questione non è stato comprato online, ma materialmente da Saturn (è molto più semplice, in caso di dispositivo non funzionante, poterlo riportare e cambiare subito, ma soprattutto si può provare il modello in esposizione e decidere se ti soddisfa o no)
I colori disponibili sono due: nero e bianco, col retro "rigato" a losanghe. La versione bianca ha il retro grigio metallizzato e, sebbene personalmente sia un fan del nero, ammetto che la versione bianca è più figa. In entrambi i casi il colore mi sembra unisex. Ma la parte posteriore si può cambiare, e c'è una varietà di colori tra cui scegliere (un po' come le cover dei Nokia 3310, che gli '80s e i '90s come me ricorderanno)
Veniamo all'aspetto pratico, con le bellissime foto scattate nel mio unico stile di fotografia sismica e decentrata.


All'inizio è necessario settare l'eReader. Via pc o wifi, è necessario aggiornarlo (che senso ha? Non possono venderlo già pronto? Mah). Quindi bisogna mettere in conto almeno 10-15 minuti di download, setting vari e riavvio. Dopodiché bisogna necessariamente creare, se non lo si ha già, un account per lo store.

Sembrava non finire mai.


Ovviamente appena acceso il dispositivo, in primo piano c'è lo Store, non la Libreria.


La visione In Lettura mostra l'anteprima degli ultimi ebook inseriti e ovviamente di quello in lettura (l'anteprima più grande). Per poter vedere tutti gli ebook contenuti nel lettore è necessario pigiare su Libreria, e poi, dal menù a tendina, scegliere eBook (la visualizzazione sarà a elenco [vedi l'immagine successiva], ma è possibile cambiare a una visione ad anteprime, cosa che sul mio kindle 4, per esempio, non è possibile).

Due parole sulla reattività del touch e la velocità del refresh: premettendo che, com'è visibile dalle foto, ho provato l'eReader con tutta la pellicola protettiva sullo schermo, il touch non mi è sembrato ottimale. Sono abituato al Galaxy S2, ma conosco bene anche i tempi di reazione del kindle 4 (non touch) rispetto alle operazioni (menù e setting vari). Di conseguenza, ho notato come il tempo di latenza tra input (tocco) e output (generazione del menù, effettuazione delle modifiche ecc.) sia notevole, rispetto al mio kindle 4. Immagino sia un tipo di tecnologia che necessita di essere sviluppata ulteriormente.


Le Impostazioni, come si può vedere, sono raggiungibili dall'icona in alto - così come la Home, sul lato sinistro. La mancanza di tasti si rimpiange un po' nel momento in cui, per andare alla home o aprire la tendina delle impostazioni, sono necessari due passaggi: se si sta leggendo, un tocco al di fuori delle aree dello schermo dedicate alla funzione avanti/indietro, quindi per esempio la porzione centrale, per far apparire dai margini superiori le icone varie, e un secondo tocco all'icona desiderata.
Quindi, per tornare alla Home, invece di poterlo fare tramite un pulsante apposito è necessario prima toccare e far apparire il tasto in alto sinistra, poi premerlo. Se la reattività fosse immediata, non sarebbe un gran difetto, ma visto i tempi di reazione, un po' scoccia. I tre tasti standard (Home / Impostazioni / Back) si potevano benissimo inserire nel dispositivo, ma tant'è.


Dalla barra inferiore si può accedere alle impostazioni di pagina e lettura, nel caso dell'immagine a sinistra, Font, Dimensioni, Interlinea, Margini e Giustificazione. I parametri si cambiano spostando il "pomolo" ma, al contrario di smartphone e tablet, ho trovato più comodo e veloce toccare direttamente il punto della linea dove si vuole che vada l'indicatore, piuttosto che pigiare sull'indicatore e spostarlo trascinandolo. Tra le Proprietà Avanzate è possibile avere anche un'anteprima dei cambiamenti, prima di applicarli.
Nota positiva: i margini si possono diminuire fino ad eliminarli completamente, così da avere il testo attaccato alla cornice della scocca.
Per ottenere una pagina sufficientemente "capiente" di testo, è necessario eliminare margini laterali e interlinea, e settare la grandezza dei font almeno al 20-30%, a mio avviso.
Nota negativa: non è possibile modificare i margini superiore e inferiore. Questo significa che la pagina assomiglia più a un 4:3 che a un 16:9, per così dire; se fosse possibile eliminare anche questi altri due margini, la capienza della pagina sarebbe migliore e le dimensioni ridotte dello schermo quasi non si farebbero sentire. Questo è un peccato, perché poter sfruttare l'intero schermo fornirebbe un ottimo potenziale per gli usi più disparati del dispositivo.
Presumo che questa "mancanza" sia dovuta al fatto che quello spazio è dedicato alle barre delle applicazioni, ma a mio avviso ciò non ha senso: se si sceglie di andare alle Impostazioni, non si sta scegliendo di leggere, per cui anche ad avere due barre, una in alto e una in basso, che coprono un paio di righe di testo, non è mica una tragedia, anzi.


Le Impostazioni di lettura permettono di personalizzare, tra le altre cose, le aree dello schermo adibite alla funzione volta-pagina e il refresh.


La seconda icona della barra inferiore, quella con le freccine, fa apparire un continuum che indica il progresso sull'intero libro. Anche qui è possibile navigare l'intero ebook col tocco sulla barra, con un riferimento al capitolo, oltre che alla numerazione della pagina.


Infine, tra le Impostazioni abbiamo gli "extra", che comprendono Scacchi, Sudoku, Sketchpad, e il Browser.
Se nel Kindle 4 il browser si trova tra i "prototipi sperimentali" (lol wut? esatto), nel Kobo mini è semplicemente un browser funzionante che, grazie al tastierino touch, ti permette di navigare in maniera credibile, rispetto al supplizio del kindle 4 (che, non avendo alcuna funzionalità touch, ti costringe a muovere coi tasti fisici il cursore su ogni lettera, impiegando quindi secoli per scrivere anche solo "Google"). La cosa che mi ha sorpreso è che nell'inserire la query nella barra di ricerca, sono apparsi anche i suggerimenti di Google "in tempo reale". Quindi direi che anche come browser d'emergenza non è affatto male, tutt'altro.

Conclusioni: il tipo di eReader e l'occasione della promozione danno un ultimatum ai lettori indecisi, che non sanno se provare l'eReading, dubbiosi ma soprattutto non convinti dall'eventuale investimento ingente. Al prezzo di due libri a copertina rigida, il lettore "curioso", senza spendere molto, può avere l'occasione di portarsi a casa un ottimo lettore con cui non solo iniziare l'esperienza di lettura digitale ma, in caso di esperienza positiva, può benissimo continuare a usare comodamente lo stesso lettore senza alcun handicap particolare. Il kobo mini è piccolo, ha tutto e di più, e sebbene non si possa definire adatto a formati .pdf troppo ampi (per esempio, manuali con immagini ecc.), offre un'esperienza completa e soddisfacente per la narrativa digitale.
E per 39€, direi che è soprattutto un'ottima idea regalo.


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Nota: Anche quest'anno, purtroppo nessuno mi ha pagato per scrivere questo articolo. Mi chiedo quanto tempo debba passare perché ciò avvenga.