venerdì 11 ottobre 2013

Impressioni | L'arte di correre, di Haruki Murakami

l'arte di correre haruki murakami recensioneNon è un'autobiografia: Murakami dice che secondo lui queste sono più che altro memorie. Ma siamo lì.
In sostanza, nell'Arte di correre Murakami racconta il suo rapporto con la corsa (e il triathlon) e la scrittura.
Non è propriamente un saggio, né una biografia visto che Murakami non racconta molti eventi di vita, quanto semmai eventi che coinvolgono la sua esperienza di atleta. E a dispetto della quarta di copertina, non è che la scrittura occupi uno spazio così ampio.
Allora perché parlarne? Tanto per occupare banda?
Sì.
A parte questo, non ho potuto fare a meno di notare due aspetti interessanti: uno più psicologico, sulla personalità di Murakami che sembra emergere da quanto scrive, e l'altro - in maniera indipendente - sulla sua concezione della scrittura.
Murakami scrive:
In questo senso scrivere un libro è un po' come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno.
Affermazioni simili, quasi di strazzulliana memoria, mi hanno permesso di farmi un'idea di Murakami non proprio positiva. Ricordo di aver scritto (un sacco di tempo fa, quando ero ancora un imberbe adolescente con idee confuse dai troppi ormoni) un post a riguardo. Lì si parlava di scrivere ogni giorno (il Duca e Gamberetta concordavano con me sul fatto che non fosse necessariamente una cosa positiva), in questo caso invece quel "uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno" fa pensare alla convinzione pittoresca dello scrittore che ha un mondo interno preziosissimo che vale di per sé, senza tener conto della forma in cui lo comunicherà. Si tratta dello "starnuto" strazzulliano, la convinzione sbagliata che illude chi si accinge a scrivere che il successo della sua opera dipenderà dalla potenza del suo genio creativo - qualunque esso sia, al di fuori di ogni giudizio oggettivo, "che non cerca conferma in un giudizio esterno".
Questo mi sorprende un poco, visto che Murakami ha uno stile narrativo neanche tanto male, per esempio in Kafka on the shore, in cui la pecca principale è lo sviluppo sconclusionato della storia insieme alla futilità degli eventi (è anche uno di quei casi in cui lo show è troppo e ci vorrebbe più tell).
Ma a questo punto, vista la sua concezione di scrittura, non mi stupisce che reputi un gran capolavoro Il grande Gatsby, per esempio, che personalmente trovo terribile.
Per il resto, cioè mettendo da parte la questione scrittura, quello che mi è parso di vedere è un uomo introverso, con una tendenza al vittimismo (non so se è pervaso da un umore depresso, distimico, che lo porta a scrivere opere "tronche" o drammaticamente deprimenti come Norwegian Wood, o magari ha solo una tendenza a narrare le storie con questa coloritura) e alcune affermazioni mi hanno ricordato tratti schizoidi:
Con un carattere del genere non penso di poter andare a genio a qualcuno.
Forse c'è uno sparuto numero di persone che provano qualche interesse per me. Ma è piuttosto raro che io piaccia. Chi mai può provare simpatia o qualcosa di simile per uno come me, uno che manca del tutto di spirito di collaborazione, che al minimo contrasto, va subito a rifugiarsi da solo in un armadio? Mi domando però se uno scrittore di professione abbia davvero, fin dall'inizio, la possibilità di essere simpatico a qualcuno. Non lo so. O forse da qualche parte al mondo questo succede.
In diverse occasioni poi Murakami adotta delle similitudini a tema bucolico, dal gusto pseudo-zen, che fanno cadere le braccia.
Direi che più che per la scrittura o la sua vita, L'arte di correre può essere una lettura accettabile per l'atleta che corre e che ha un interesse per Murakami, ma niente di più. Sinceramente, lo sconsiglierei a chiunque altro.

domenica 6 ottobre 2013

Impressioni fulminanti | Dannazione, di Chuck Palahniuk

palahniuk damned romanzoHo riattaccato con Palahniuk dopo una carrellata di romanzi scarsi che speravo di poter addirittura terminare e invece ho abbandonato. Diciamo che è stata una scelta obbligata: si avvicinava l'inizio delle lezioni, e non avrei avuto più il tempo per leggere narrativa, così mi sono buttato su qualcosa di sicuro.

Madison Spencer è una ragazzina di 13 anni che si trova all'inferno per - a suo dire - un'overdose di cannabis. Qui incontra altri ragazzi e personaggi, alcuni anche storici. La storia rivela a poco a poco dettagli sulla vita dei personaggi ma soprattutto su quella di Madison, della sua famiglia, e la verità su come è morta.

Quando leggo Palahniuk so già cosa mi aspetta, e questo si rivela un'arma a doppio taglio. Se da un lato so che sto per leggere qualcosa di alta qualità (il più delle volte), dall'altro mi scoccia come mi saltino all'occhio le strategie stilistiche usate (soprattutto dopo aver letto i suoi saggi sulla scrittura). I cori, le sensazioni on the body, per esempio, o altri pattern tipicamente Palahniukiani.
Di conseguenza mi concentro più sui contenuti. Fermo restando che la riflessione indotta da un romanzo è sostanzialmente una cavolata (nessuno scrive una storia per far riflettere, sarebbe una scelta stupida, ma per comunicare la storia stessa, ed eventuali riflessioni - ma neanche troppe - spettano al lettore, sebbene non siano necessariamente richieste), Dannazione fa riflettere.
L'inferno di Palahniuk non è propriamente cristiano, si potrebbe banalmente definire simbolico - per esempio, si finisce all'Inferno se si lancia più di un certo numero di mozziconi di sigaretta per strada, o se esaurisci il numero di "cazzo" disponibili in tutta la vita -, satirico (riesco a sentire le bestemmie di Dante fin da qui) - i morti finiti all'inferno sono gli stessi operatori dei call center che chiamano a casa nell'orario di cena -, e via discorrendo.
Uno dei "ritornelli" che più mi è piaciuto, da un punto di vista comunicativo a dir poco efficace, è questo:
A chiunque stia leggendo e non sia ancora morto, auguro buona fortuna. Sul serio. Continuate pure a mandar giù vitamine. Continuate a fare jogging intorno al laghetto del parco e a evitare il fumo passivo. Incrociate le dita... magari a voi la morte non capita.
In alcuni punti la potenza narrativa cala, e talvolta il narratore, che è Madison ma allo stesso tempo è il Narratore, non suona per nulla una 13enne: ci si potrebbe sorvolare, assumendo per esempio che il narratore è un filtro del flusso di pensieri di una ragazzina morta. Ma Palahniuk adotta, tra i vari cori, uno ricorrente che ricalca come la ragazzina, a dispetto dell'età, conosca determinati termini e concetti. Insomma, sembra molto più matura di quanto qualsiasi 13enne potrebbe mai essere, e l'incongruenza alle volte viene amplificata.
A ogni modo, nonostante conosca ormai le strategie stilistiche di Palahniuk, devo ammettere che nel romanzo ho incontrato diverse forme davvero efficaci, originali, che confermano la bravura dell'autore, e l'intera lettura è piacevole.
Per concludere, un'opera palahniukiana che, a mio avviso, ogni suo estimatore non dovrebbe farsi mancare di leggere.

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P.S. La copertina originale è bellissima. Quella italiana non si può proprio vedere, per questo ho scelto la prima.