In questo post, il buon Zweilawyer ha pubblicato un racconto scritto circa una decade fa, per mostrare il suo "odio verso un determinato tipo di scrittura". Questo significa che Zwei riconosce di essere stato uno scrittore alle primissime armi, di aver fatto errori da dilettante, di essere migliorato e di saper distinguere il lavoro di un dilettante (anche il suo) dal lavoro di un maestro - per così dire.
Una preoccupante fetta della letteratura fantasy (e non solo) italiana (e non solo) contemporanea (ma anche no) è rappresentata da autori pubblicati che non solo scrivono male e non migliorano: addirittura ne vanno fieri e rigettano le "accuse" con una grande varietà di giustificazioni che, detto tra noi, dimostrano quanto sia più facile preferire la pigrizia, la disonestà intellettuale, e molto più semplicemente dimostrano di non capire dov'è il problema.
Mi sono permesso di editare l'intero racconto, grosso modo chiarendo le motivazioni di ogni modifica, errore, svista, scelte infelici ecc.
Alcune cose sono date per scontate (per esempio, il fatto che l'infodump sia un errore, che a qualcuno sfugge; per approfondimenti vedasi questo post del Duca - in continuo aggiornamento), altre invece sono approfondite. Alcuni errori ripetuti non li ho segnalati sistematicamente, ma si dovrebbero intuire.
Il parere generale sul racconto è il seguente: è colmo di una "poesia epica" da genio incompreso/scrittore alle prime armi. Ci sono frequenti cambi di pov che non hanno senso, informazioni intrusive nella storia, e via discorrendo.
Concordo con Angra, che cito testualmente dal suo commento:
.
Be’, ti dirò, lo stile è quello che piace agli editori fantasy italiani e ai loro fan, ma è decisamente al di sopra della media dei romanzi pubblicati. Potrebbe essere pubblicato, ma solo dopo un massiccio intervento peggiorativo da parte di uno dei loro valentissimi editor
Segue l'editing del racconto. Appena ho tempo lo carico in pdf, ma per il momento lo lascio copincollato.
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DOGRHABAÀL
Nell’ampio salone di marmo e roccia nera regnava un silenzio inquieto [ossimoro: in poesia è ok, in narrativa difficilmente tocca gli animi, semmai distrae o non comunica nulla.]
Il buio era appena attenuato dai riflessi di grossi rubini scuri e dalla poca luce che
filtrava dai vetri scarlatti delle piccole finestre. Passi veloci lo percorsero come
avevano fatto decine di altre volte, fino a raggiungere la parete opposta, levigata
senza imperfezioni. [non è un reato usare gli aggettivi, ma vanno usati con parsimonia e con buonsenso: se non specificano bene o specificano cose già chiare (i.e: pleonasmo), si possono omettere; i dettagli narrati sono sparsi, e questo è dovuto al fatto che non c'è ancora un pov attraverso cui filtrare la massa di informazioni]
Dogrhabaàl allargò le braccia e proferì parole incomprensibili infra[m]mezzate [manca una M, lol] da
blasfemie, poi rimase immobile. [vada per le parole incomprensibili, non riproducibili testualmente, ma le blasfemie si potrebbero anche sapere, quindi mostrare] Uno scricchiolio segnò la riuscita del rituale [parere del narratore, che ora ci svela palesemente cosa sta succedendo]; pollice
dopo pollice la parete si aprì con uno stridio acuto accogliendo il curlong al suo
interno e richiudendosi con veemenza un istante dopo. Il corridoio era grezzo [cioè come?] e
scuro. Dogrhabaàl non lo attraversava mai con piacere. Era scavato con
un'inclinazione quasi verticale e portava dalla sala grande ad un antico [da cosa lo si capisce?] altare di pietra
lavica. Lungo il percorso non c'erano molte torce accese e quindi doveva tastare le
pareti almeno ogni dieci passi.
Non respirava, e quanto più proseguiva tanto più era costretto ad allargare [i]
polmoni per guadagnarsi un po' d'aria. C'era quasi… il lieve bagliore della cripta già
rischiarava il suo lungo abito sanguigno [non è un errore, ma vedasi avanti] e bastarono pochi istanti per sedersi su un
umido scranno marmoreo venato [aggettivi+3] di nero e di viola.
Di fronte a lui, sull’altare, giaceva una vasca di calcare ricolma di sangue. La
superficie esterna era coperta di geroglifici indecifrabili da un intelletto mortale[sigh], ma
terrificanti nella loro tortuosità espressiva. [andrebbe bene se ciò fosse il prodotto della mente di Doghrabaàl]
Per nulla turbato, Dogrhabaàl affondò un calice di giada nera nel liquido e lo
portò alla bocca. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, poi bevve. Non era la
prima volta che tracannava quel sangue demoniaco denso e acre, diverso da quello
degli uomini e dei curlong, infernale tanto nella consistenza quanto nel sapore. Nello
stesso momento le pareti rugose, la vasca e i gradini che portavano ad essa
tremolarono come avvolti dalle esalazioni del caldo estivo, poi sparirono, lo stesso
accade con il calice e con l'entrata della sala. Rimase solo lui, saldo sull'antico sedile, mentre la realtà spariva inghiottita da un
ignoto nero siderale. Ebbe l'impressione [?] di non potersi muovere [che ci provi!], come schiacciato da
un peso insostenibile e invisibile.
Quando aprì le palpebre si trovò di fronte a uno spettacolo incredibile che ogni
volta lo sorprendeva. Non si trova più nello spazio angusto di prima, ma in un
ambiente smisurato e scuro, fatto di proporzioni titaniche e odori sulfurei. [tante parole, nessuna immagine]
Davanti allo scranno si ergeva una doppia fila di colonne cineree, coperte di
incisioni in un linguaggio demoniaco, preumano, incomprensibile ma capace di
risvegliare i terrori più primordiali [di nuovo, fossero pensieri del protagonista, ci starebbe]: alte a tal punto che il soffitto si poteva solo
intuire, e fra di esse una nebbia umida rendeva impossibile vedere oltre una decina di
iarde.
Non era un luogo edificato dalle mani dell’uomo. [come prima]
Dogrhabaàl si alzò con cautela e si incamminò guardandosi intorno con
circospezione. Poteva udire grida e lamenti indistinti provenire da ogni direzione. Il
curlong aveva assisitito a decine di torture e ne aveva tratto anche un discreto piacere
delirante, ma quei gemiti provenivano da uomini cui l’anima era stata fatta a
brandelli. Per loro la morte non avrebbe portato nessuna requie, ma una miriade di
altri osceni tormenti. Il logoro pavimento di basalto era scivoloso [ne vogliamo le prove] e tremava senza
sosta, come scosso da una mandria di rinoceronti in fuga. [non è tanto assurdo, può starci]
Se l'aria nel cunicolo che portava all'altare era rarefatta, qui invece era marcia e
asfissiante come quella di una palude. Si trovava da qualche parte in profondità,
probabilmente nelle viscere di Onnar, dove l’aria era bruciante anche senza il sole e
la vita era morta [lol wut?]. La pressione cui era sottoposto il suo fisico aumentava ad ogni
passo e mani invisibili spingevano le sue spalle verso il basso. Resistette quel che
poteva, poi cadde con le mani sulle ginocchia [la forma è un po' triste, ma ho colto il senso] cercando di prendere fiato. La nebbia
fumosa non accennava a diradarsi.
Non aveva percorso neanche un passo in più dell’ultima volta, e già si trovava a
ricacciare indietro il vomito e la nausea, ben sapendo che il peggio doveva ancora
arrivare. Sentì chiaramente una presenza incombente, fatta di oscurità cosmica e
orrore [Cthulhu?], e comprese che il momento era giunto. Strinse i pugni premendoli sulle cosce,
mentre le ginocchia sanguinavano sugli spuntoni di roccia zigrinata che spuntavano
da terra.
Una voce, un ruggito basso, profondo, risuonò vibrando nella roccia fredda.
Seguiva le gocce lungo le fessure dell’antro facendole tremare.
Appesantiva l’aria già fetida lacerando i timpani.
Veniva dal buio.Dall’abisso.
«Dunque sei qui, stupido mortale.»
Dogrhabaàl fu scosso da un tremito, ma cercò di rimanere tranquillo. Fuori da
quell’abisso, solo pochi si erano arrischiati nel rivolgersi al curlong con quel tono
insultante, ed erano tutti finiti spellati vivi e immersi nel sale ad agonizzare per ore.
Ma lì era solo un servo, soggetto al potere di un essere superiore. [come prima, i pensieri sono del narratore, non del pg, e le informazioni fioccano da tutte le parti]
«Sono qui mio Signore, dimmi ciò che desideri.»
Qualcosa si mosse dietro la fitta nebbia. I contorni giganteschi di un essere [quali sono i contorni di un essere?] si
fecero avanti. Dogrhabaàl non poteva comprenderne la sostanza, né ricondurli a una
creatura di Onnar, ma di una cosa era sicuro: si trattava di un mostro osceno,
nascosto nell’ombra come una fiera in agguato.
«La mia progenie vive. La mia progenie uccide» ruggì l’essere, le sue parole
risuonarono in una lunga eco spettrale «una città degli uomini e migliaia di soldati
sono stati annientati e divorati dai miei figli. Sento gli occhi umidi delle loro donne e
il dolore lancinante dei loro cari. Mi nutro delle loro pene, hanno il sapore delizioso
delle lacrime e del sangue.»
Il curlong era giunto al limite della sopportazione, l’aria, sempre più rarefatta, si
rifiutava di riempire i polmoni. Per alleviare le sue sofferenze, gettò all’indietro il
cappuccio di pelle umana, sul quale si intravedevano ancora i tratti orribilmente
distorti di un volto fanciullesco strappato alla vita. Quello di Dogrhabaàl era invece
un abominio da curlong, con tre occhi giallastri più piccoli di quelli umani che
sovrastavano il naso schiacciato e un ghigno mostruoso fatto di denti conici e quattro
canini lunghi e acuminati, due sporgenti dalla mascella e due dalla mandibola. [il mostrato mi spiazza: se è del pov, ok, il curlong è l'essere, ma se descrive anche il cappuccio del pg, mi chiedo chi sia a guardare, e chi sia cosa]
«Sei dunque soddisfatto, mio Signore? Tutto sembra procedere per il meglio»
sibilò Dogrhabaàl muovendo freneticamente gli occhi nel tentativo di intuire la forma
dell’interlocutore.
«Tu osi parlarmi senza essere interpellato, dovrei calpestarti come un verme e
gettarti all’inferno» a quelle parole sottili spine di ghiaccio affondarono nelle
vertebre del curlong «ma non lo farò, e anzi risponderò alla tua domanda» il grugnito
si fece ancora più profondo, al punto che se ne potevano percepire solo alcune
sfumature.
«Finalmente alcuni uomini hanno capito che se vogliono portare avanti le loro
misere esistenze devono adorare me e non Tecrod. Sento il profumo di mille sacrifici
compiuti in tutto il mondo, le urla e le bestemmie, ma la maggior parte di quegli
esseri schifosi rimangono fedeli alle loro divinità. Finché non saranno tutti carponi
davanti ai miei altari, a sacrificare le giovani mogli e i figli tanto amati, io stringerò sempre più la mia morsa e tu, assieme ai tuoi luridi sudditi, dovrai fare lo stesso. E’
giunta l’ora.»
Per quanto Dogrhabaàl odiasse gli umani, i suoi sentimenti non erano paragonabili
a quelli che ogni volta palesava la crudele divinità. Un odio nero e cieco impregnava
ogni sua parola, e le continue pretese di altari insanguinati lasciavano presagire un
furore di pece che non si sarebbe mai placato. Ma ormai il tempo era giunto, tutto ciò
per cui si era preparato negli ultimi anni sarebbe iniziato di l[ì] a poco.
Tornò con la mente al giorno del suo risveglio [sono ricordi, quindi diciamo che va bene], quando il volere del dio lo aveva
strappato dagli abissi del tempo in cui si era perso da secoli. Ricordò l’improvviso
accendersi dei sensi, il caldo del sangue che tornava a circolare, il battito del cuore, il
suo braccio mummificato che si copriva di nuova carne ed epidermide, lo
scricchiolio dei dischi vertebrali che tornavano a flettere il dorso. Si era alzato dalla
sua tomba, da solo. Aveva mosso passi incerti all’interno della cripta, sempre guidato
dal fragoroso vociare del dio, ed aveva osservato curioso il proprio corredo funerario,
fatto di lucidi teschi, enormi tesori d’oro e argento e armi di ossidiana tempestate di
rubini. Dopo aver percorso un lungo cunicolo dalla sezione quadrata perfetta, si era
trovato fuori dal suo sepolcro, in una notte senza luna e senza stelle, fustigata da un
vento glaciale. [il riassunto ci sta bene, è un ricordo]
Dietro di lui, lo ziggurat di pietra nera che lo aveva ospitato per millenni sfumava
nel cielo, venato di fuoco, in un vortice di gradoni sempre più stretti. Non poteva
essere, non era, l’opera di uomini o curlong, ma di un’entità che poteva plasmare
miliardi di libbre di pietra e granito come fossero argilla, che non doveva fare i conti
con i limiti dell’ingegno e degli attrezzi umani. [di nuovo: chi è che afferma tutto ciò? Il narratore? Sì. Può risparmiarselo? Sì. Perché? Perché se il narratore spiega tutto la storia perde credibilità e un po' (molto) di fascino. Questo vale per il resto:]
Ai suoi piedi, una città silenziosa di rocce senza tempo, modellate dalla bora del
nord in forme grottesche, sicuro rifugio di bestie deformi e demoni antichi. Lì, ai
piedi dei monti Gawathor, il giorno non sorgeva mai, e per quanto il sole tentasse di
lacerare la spessa coltre di nubi plumbee, riusciva solo a colorarle di un cupo
scarlatto. Aveva atteso lì, ai piedi del suo mausoleo, mentre le ultime tracce della
morte fisica abbandonavano il suo corpo.
I mesi passarono come uno schiocco delle dita, senza lasciare traccia nella sua
mente e nella solitudine infinita di quella distesa rocciosa. Il vento gelido aveva
lasciato il posto a una pioggia incessante, tale da far pensare che una diga nei cieli
avesse improvvisamente ceduto, e proprio durante la tempesta, fra i fulmini
abbaglianti e il rombo dei tuoni, che si confondeva con la voce del dio, cominciarono
ad arrivare. Prima la tribù dei Zah-krol, la più becera e violenta [da qui in poi si chiama infodump], i cui guerrieri
cavalcavano gli abominevoli rinogrom, la cui pelle bitorzoluta era spessa quanto una corazza e i cui corni, posti sul muso famelico, potevano raggiungere i cinque piedi di
lunghezza; poi quella dei Badrhat, la più numerosa, assiepata su carri di legno marciti
dalle intemperie, che incespicavano sul terreno brullo dotati com’erano di ruote quasi
quadrate; e ancora gli Ugh-dhò, completamente nudi e incapaci di articolare qualsiasi
parola, che si esprimevano con versi animaleschi e si spostavano a piedi.
Ne arrivarono altre, provenienti da ogni angolo dell’Ulth-Baal, lo sconfinato
territorio che si estendeva a nord dei Gawathor, l’invalicabile catena montuosa che
separava i regni degli uomini dalle tribù dei curlong. [tutto questo è davvero infodumposo, ma non è finita:]
Una forza invisibile, una calamita demoniaca li aveva guidati all’altezza
vertiginosa dello ziqqurat, con la promessa di infinite carneficine e feste di sangue
umano. Nel giro di un mese, una miriade di curlong si erano accampati fra le rocce
contorte, accendendo falò negli anfratti più scuri e attendendo un segnale dalla figura
seduta sui gradini d’ebano che portavano all’ingresso della torre ciclopica.
Alla fine, spinti dai morsi della fame, i capi delle novantanove tribù si erano fatti
coraggio ed avevano raggiunto Dogrhabaàl con passi circospetti, interrogandolo sul
da farsi.
«Aspetteremo quanto sarà necessario aspettare» era stata la sua risposta. Lo
stregone aveva atteso per un anno, senza patire né fame né sete, segno evidente di
una condizione innaturale.
Non conservava che ricordi consunti della sua vita passata, anzi, a volte dubitava
persino di averne avuta una, ma più si avvicinava il momento, più i bagliori di
memoria si facevano nitidi.
L’antro oscuro, le parole di tuono, la figura feroce e smisurata dell’essere
immortale, tutto gli sembrava familiare e alieno al tempo stesso.
L’ombra nebbiosa [non è tanto per il fatto che prima c'era la nebbia fumosa e ora un'ombra nebbiosa, quanto per il fatto che la nebbia sta là, e l'ombra vi sta dentro; l'ombra di un oggetto distante dalla fonte di luce può essere “nebbiosa”, ma in questo caso il contesto è diverso] alta quanto le colonne, si fece più scura e si venò di riflessi
fiammanti.
«Ora abbandona la mia dimora.»
Non ci fu bisogno di specificare che sarebbe potuto tornare solo su suo ordine
espresso, nessuno poteva raggiungere quell’inferno di zolfo senza invito.
Lentamente, con un ultimo sforzo dei muscoli, Dogrhabaàl si trascinò carponi verso
lo scranno, mentre da ogni parte provenivano risate distorte e gemiti di sofferenza. Si
issò con fatica facendo forza sui braccioli e alla fine riuscì a sedersi, ma già il vortice
stellare stravolgeva la realtà intorno a lui, strappandolo dal cupo abisso e portandolo
nuovamente nella cripta.
Il peso opprimente sulle spalle scomparve nello stesso momento in cui percepì [come?] la
vasca di calcare e i suoi flutti scarlatti. Percorse celere il cunicolo e poi i saloni coperti di marmi scuri del palazzo, scosso e al tempo stesso entusiasta per le notizie
che portava. [ecco che comincia:] Negli ultimi tre anni, tanto era passato dall’arrivo della prima tribù, i
curlong avevano atteso senza lamentele. Primitivi e superstiziosi, non avevano mai
messo in dubbio il volere di Ukodnos e le disposizioni del suo servitore strappato alle
mani scheletriche della morte. Si erano accontentati di mangiare ratti, pipistrelli, e le
infinite varietà di scorpioni giganti, scarafaggi delle dimensioni di un maiale ed altri
esseri striscianti che appestavano quei luoghi. Non erano mancati innumerevoli
episodi di cannibalismo, una pratica alquanto diffusa fra i curlong, specie in assenza
di razzie nelle terre degli uomini. Le uniche prede dignitose erano stati dodici
minatori catturati sulle pendici meridionali dei Gawathor, condotti in catene alla
Torre di Dogrhabaàl e squartati in onore di Ukodnos. [Capolavoro ineguagliabile dell'Infodump] I curlong più giovani ne
avevano divorato gli intestini mentre i disgraziati avevano ancora fiato per urlare e
lacrime per piangere il dolore di una fine così schifosa.
Ma ora era giunto il tempo di agire, di liberare la rabbia furiosa del suo popolo
mostruoso e soddisfare le brame del dio. Affrettando il passo, raggiunse il portone di
pietra liscia che dava sulla vertiginosa rampa di gradini che salivano verso lo
ziqqurat. Si aprì senza che Dogrhabaàl lo toccasse, scorrendo in uno stridore acuto
che il curlong sembrava non sentire.
Dalla piana sotto di lui, le tribù indaffarate [se non si può essere più chiari, non vale la pena che esista] abbandonarono all’istante le loro
attività [quali? Non è saggio narrare azioni collettive: è sbrigativo, ma non efficace], voltandosi verso la figura magnetica del [“figura magnetica” è l'opinione di qualcuno: il narratore soggettivo fa cadere il sense of wonder, per questo è preferibile che sia oggettivo] [il loro] leader. A malapena riuscivano a
scorgerne i contorni [cambio di pov immotivato, da qui in poi, in maniera altalenante], ma anche da quella distanza se ne intuiva il potere, la forza di
cambiare ciò che lo circondava con la sua semplice presenza. In un batter d’occhi i
capi tribù si radunarono ai piedi della rampa, ma Dogrhabaàl non sembrava
intenzionato a scendere. Rimaneva lì sopra, dritto come una statua, con le braccia
lungo i fianchi e la testa china sul petto.
«Il digiuno sta per finire» la voce dello stregone era nitida, sebbene fosse di
fronte a loro ma a centinaia di iarde di distanza. Rimasero impressionati, ma
immediatamente digrignarono i canini famelici in segno di soddisfazione [narratore soggettivo] . «Ma
dobbiamo prepararci con cura, poiché molti fra gli uomini sono abili guerrieri e i loro
eserciti fanno tremare la terra come valanghe di ferro. Continuate a scavare nel
ventre dei Gawathor, prendete tutti i minerali, forgiate armi di ogni fatta e battete
corazze robuste, nulla deve essere lasciato al caso. La mano di Ukodnos ci guida.»
Seguirono degli attimi di silenzio innaturale [spiegatemi la differenza]: nessuno aveva il coraggio di
prendere la parola per primo e rivolgersi a un interlocutore così lontano. [ennesimo cambio di pov inutile]
«Siamo pronti» urlò Guddan Zah-krol sputando densi fili di bava dalla bocca. Con
tutta probabilità, superava i sette piedi d’altezza e le quattrocento libbre di peso: una montagna di muscoli guizzava sotto la pelle verdastra che a malapena riusciva a
contenerli. Portava una mastodontica ascia dietro la schiena [lol], fissata al nudo torace
con una serie di cinture in cuoio che coprivano un numero infinito di cicatrici
bianche e profonde.
«Gli eserciti degli uomini non ci spaventano, siamo più forti, più combattivi, più
affamati..loro ci temono.»
Il ruggito di Dogrhabaàl lo interruppe.
«Sei un guerriero valoroso, Guddan, e centinaia di uomini sono caduti sotto la tua
lama, pregandoti di avere pietà. [abbi pietà di me con la tua narra-poesia epica!] Stavolta però non si tratta di una razzia, ma
dell’evento decisivo per le sorti della tua gente, della nostra gente. Il mondo
cambierà per sempre il suo volto, e noi saremo il mezzo per questo cambiamento.
Quindi attendi con pazienza, e mantieni viva questa rabbia, perché il giorno in cui
potrai darle libero sfogo è sempre più vicino.»
Quella promessa ebbe su Guddan l’effetto di un sedativo [di nuovo, cambio pov], e si limitò ad un cenno
di assenso con il capo.
«Hai detto che il giorno si avvicina, ma sarebbe un bene sapere se si tratta di un
giorno o di una settimana o anche di un mese.»
A parlare era Aghoc, a capo dei Badrath, che subito incontrò i volti concordi degli
altri capi. Aveva l’orecchio destro stracciato dal morso di qualche bestia o di un altro
curlong [sigh], e, vicino alla stazza di Guddan, sembrava un bambino in compagnia del
padre.
«Non ci è dato di scrutare il disegno ultimo, né il tempo degli eventi. Il nostro
compito è quello di essere pronti ad assecondare il piano dell’Immortale, ma, come
ho già detto, a breve gli uomini soffriranno. Anzi, già da qualche tempo la sua
progenie corporea sta spazzando via castelli e soldati a migliaia di miglia da qui, in
una terra dove scorrono grandi fiumi e i campi producono le messi più abbondanti
del mondo.»
A quella notizia i curlong mostrarono i canini in un ghigno di piacere. [=sorrisero/ghignarono/ a denti scoperti]
Ogni ragione di sofferenza per chi stava dall’altro lato dei Gawathor portava
piacere sul versante opposto, era sempre stato così e sempre lo sarebbe stato. [narratore soggettivo che spara infodump sulla folla inerme]
Aghoc però aveva qualcosa da aggiungere.
«Ho un’altra domanda, se posso.»
«Parla.»
«Mi chiedevo come faremo ad attraversare i monti, che sono coperti dal ghiaccio
eterno anche dall’altro lato, dove in estate il sole brucia la pelle come ortica [infodump dialogistico, che tutto sommato può pure stare]» si interruppe cercando di comprendere la reazione del suo interlocutore. Vedendo che
Dograbhaàl non sembrava infastidito, riprese a parlare.
«Nelle incursioni raramente usiamo più di un centinaio di guerrieri, e parliamo dei
più resistenti fra i curlong, ora invece parliamo di centinaia di migliaia di individui,
coperti di ferro, con rinogrom e altre bestie al seguito. Come faremo a salire fino alle
stelle e poi scendere lungo i sentieri lastricati di ghiaccio, a evitare i crepacci, le
pozze di neve fresca… siamo tanti, forse troppi per questa impresa.»
« E dovremo vedercela con scimmie giganti delle nevi e altri mostri che dimorano
nelle caverne e nei boschi di pino in attesa di prede da sgranocchiare» aggiunse
Goklal, che fino ad allora non aveva proferito parola, ma aveva ascoltato con
interesse quanto avevano da dire gli altri due. [tristissimo cambio di pov inutile]
«Meglio, li squarteremo e mangeremo le loro carni insipide per farci forza durante
il viaggio, noi non temiamo nessuno» lo interruppe Guddan puntandogli l’unghia
scheggiata e ricurva dell’indice verso la faccia.
«Nessuno ci disturberà, nessuno intralcerà il nostro passaggio» sentenziò
Dorghabaàl alzando finalmente il capo. «Non dovete preoccuparvi n[é] delle
montagne, n[é] degli esseri che le popolano» gli occhi gialli si aprirono in modo
fulmineo e si richiusero.
I capitribù assentirono, completamente soggiogati dal magnetismo del loro profeta
nero. A cosa serviva fare domande, dopo quello che era successo? Avevano
trascinato il loro popolo verso la tomba d’ebano di un antico stregone, costretti da
una volontà soprannaturale, impossibilitati a fare altrimenti. Avevano atteso ai piedi
della torre per mesi, scavando tunnel nella roccia alla ricerca di ferro e altri minerali.
Decine di minatori erano morti per le esalazioni gassose e per le polveri, con la
gola bruciata ed i polmoni collassati, ma erano stati sostituiti da altri e poi da altri
ancora. Si erano nutriti di ogni essere che avevano trovato lungo la strada, dei vecchi
padri e dei cuccioli morti. Tutto questo senza mai fare questioni, senza mai pensare
di lasciare quel luogo e tornare negli anfratti più remoti dell’Ulth-baal.
Erano primitivi, rozzi, e temevano ogni cosa per cui non trovavano spiegazione.
Come potevano mettere in dubbio la volontà di un dio e del suo servitore? [apoteosi di narratore senza briglie]